Come Si Lavavano I Denti I Romani?
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La toeletta – Calzatisi e vestitisi con un pratico amictus, dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua, i romani erano pronti a dedicarsi ai loro affari. Quanto all’igiene della persona non se ne preoccupavano al mattino poiché sapevano che a questa avrebbero dedicato molto tempo alla fine del pomeriggio recandosi al balneum pubblico o privato o alle terme pubbliche.
- Molto raro era il caso che i romani si lavassero dopo svegli, il sapone non era conosciuto e tutt’al più facevano come dice Ausonio in una sua ode : «Schiavo, su via! Dammi le scarpe e il mio mantello.
- Portami l’ amictus che mi hai preparato, perché devo uscire.
- E versami l’acqua per lavarmi le mani, la bocca e gli occhi.» Se l’igiene del corpo era approssimativa sembra che invece fosse comune l’abitudine di lavarsi i denti al mattino sfregandoli ( defricare ) con una polvere ( dentifricium ) in genere costituita da bicarbonato di sodio.
Plinio usava una sua ricetta personale molto elaborata che annoverava tra i componenti cenere di testa di lepre, cenere di denti d’asina e pietra pomice, Le matrone avevano a loro disposizione catini, specchi di rame, d’argento o di vetro ricoperto di piombo e potevano disporre di una personale vasca da bagno ( lavatio ) potendo così fare a meno dei bagni pubblici.
Cosa usavano gli antichi romani come dentifricio?
Il ‘ dentifricio ‘ più in voga era una pasta a base di bicarbonato di sodio, una sostanza naturalmente detergente, disinfettante e dal blando effetto sbiancante.
Come ci si lavava i denti in passato?
Nell’antica Mesopotamia ci si puliva i denti con un miscuglio di corteccia, menta e allume (sale minerale); nell’antica India si impastavano estratti vegetali di crespino e pepe; in Egitto, durante la dodicesima dinastia, le principesse utilizzavano verderame e incenso, ed un impasto a base di mirra dolce e fiori come
Come si lavano i romani?
E GLI ANTICHI ROMANI? COME FACEVANO SENZA CARTA IGIENICA? La società occidentale considera l’antica Roma come una pietra miliare della storia umana per via della sua avanguardia nelle istituzioni e per il suo dinamismo culturale. Si può davvero, quindi, affermare che fu Roma a fondare la prima Europa e a regalarci tutto il nostro patrimonio culturale e giuridico.
Ma, i romani, così avanti dal punto di vista sociale, lo erano anche nelle loro abitudini quotidiane? Facendo una veloce ricerca ne emerge che, nonostante le loro importanti conquiste, i romani si dilettassero in alcune pratiche quotidiane che, al giorno d’oggi, troveremmo a dir poco disgustose. Una tra queste è proprio il momento in cui dovevano espletare i propri bisogni fisiologici.
La scoperta di Pompei nel 1748 ci ha permesso di saperne di più sulla vita quotidiana dei romani in particolare sulla loro abitudine di frequentare i bagni pubblici, piccoli capolavori di architettura e di arte decorati con marmi, sculture ed affreschi.
Sulla loro bellezza, niente da dire, ma qualche perplessità sorge sull’effettiva igiene. Infatti, i water dell’epoca, i così detti vespasiani, non scaricavano. Alcuni di essi erano collegati a sistemi idraulici e fognari interni che consistevano in un piccolo flusso continuo di acqua che scorreva continuamente sotto i sedili del water, nulla più.
Ah, ovviamente, all’epoca la carta igieni ancora non esisteva! Quindi, un romano, una volta fatto quello che doveva fare, cosa faceva? Semplice, utilizzava il tersorium, una specie di spazzolone fatto con una spugna (dal Mar Mediterraneo, ovviamento) e un bastone di legno.
- Decisamente non molto comodo! Una volta utilizzato veniva poi risciacquato sotto l’acqua eavanti il prossimo “cliente”! La pipì, invece, veniva accumulata in delle pentole che, una volta piene, venivano svuotate in delle grosse giare in strada.
- Come se fosse stata la raccolta differenziata, un team di persone composto appositamente passava una volta alla settimana per raccoglierne il contenuto e portarlo nelle lavanderie.
Come mai, vi starete chiedendo. Facile! Perché gli antichi romani lavavano i loro indumenti proprio con la pipì! L’urina umana, infatti, contiene una grandissima quantità di ammoniaca che è un detergente naturale. Francamente, ci chiediamo perché non abbiamo emulato questo aspetto della cultura romana nella nostra epoca di imprese green ed eco-sostenibili.
Come ci si lavavano i denti nel Medioevo?
La salute dentale in Europa – Il Medioevo in Europa è un periodo di decadenza per la salute dentale : non si praticava alcuna igiene orale e il mal di denti era molto diffuso, soprattutto tra i nobili, la cui alimentazione era ricca di cibi dolci. Dame e cavalieri con il loro ventaglio nascondevano spesso denti mancanti e aliti pesanti.
Dove Cagavano gli antichi romani?
” Latrina Romana Il crollo di una parte del muraglione di sostegno del piazzale antistante la chiesa di S. Pietro in Montorio, avvenuto nell’ottobre del 1963, ha portato alla luce i resti di un’antica latrina romana. Dell’ambiente, orientato in senso NO-SE, si conservano soltanto due muri, in opera mista, tra loro ortogonali interrotti alle estremità.
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SEDILE RINVENUTO NELLE TERME DI CARACALLA |
Il piano di scorrimento del canale è in bipedali e le sponde sono rivestite di cocciopesto. La pavimentazione a mosaico geometrico dell’ambiente risulta, quindi, distanziata dalle pareti per la presenza di detto canale. Parallelo a quest’ultimo corre un’altra canaletta di servizio per le pulizie, attualmente quasi del tutto scomparsa.
Usualmente sul canale di scarico, destinato allo scorrimento dell’acqua, erano disposti i sedili in pietra, generalmente di marmo, detti sellae pertusae, opportunamente forati nella parte superiore per permetterne l’uso, ma in questo caso non è stata rinvenuta alcuna traccia di tale arredo. Quindi è da ritenere che una serie di tavole mobili forate, disposte su supporti collocati probabilmente su sporgenze, di cui se ne conservano due lungo il muro ovest, costituissero i sedili.
Una soluzione analoga è stata supposta per altre latrine pubbliche e private: a Pompei, nell’Agora degli Italiani a Delo, nella villa di Settefinestre (Grosseto) e in Britannia. Sul lato sinistro della parete di fondo, a ridosso della parete ovest, è visibile una piattabanda attestante la presenza di una porta, ora tamponata, comunicante con un secondo vano, non scavato.
- Su questo lato l’intonaco dipinto è stato notevolmente danneggiato dai lavori di sottofondazione del muraglione della soprastante piazza.
- Per questo stesso motivo fu demolita la parte nord della pavimentazione a mosaico, danneggiando il canale di scolo, per far posto a due grossi pilastri di cemento che furono addossati al muro nord.
Sul lato ovest si conserva un largo tratto della muratura ancora parzialmente rivestita di intonaco. La decorazione pittorica ad affresco presenta uno schema lineare. Lo stile pittorico, simile a coevi esempi a Roma come nella domus di via Eleniana e nella villa sotto l’abside della basilica di S.
Giovanni in Laterano, permette di datare la latrina agli ultimi decenni del II inizi del III sec. ” (Raffaele M. Maiorano) Roma è fatta così, crolla un muro o si apre una buca sulla strada e subito affiorano resti romani, purtroppo spesso i luoghi vengono richiusi, perchè costa il mantenerli aperti, e perchè non c’è una politica turistica che li renda vantaggiosi economicamente.
La latrina di via Garibaldi infatti non è visitabile nè è stato scavato ulteriormente. Prima delle terme, i Romani si accontentavano di bagnarsi entro bacini posti in luoghi bassi non decorati e poco luminosi, ma le Terme poi furono un voto all’igiene, alla cura, all’arte e alla bellezza.
“I romani hanno pensato soprattutto a ciò che quelli avevano trascurato: a pavimentare vie, a incanalare acque, a costruire fogne che potessero evacuare nel Tevere tutti i rifiuti della città tanta è l’acqua condotta dagli acquedotti da far scorrere i fiumi attraverso la città e attraverso condotti sotterranei” (Strabone – Geografia) I Romani erano un popolo fortemente civile e l’giene personale nonchè cura del corpo rivestivano per loro una grande importanza nella vita quotidiana, importanza che poi decadde con l’avvento dei barbari ma soprattutto del cristianesimo per il quale il corpo era peccato e curarlo era vanità.
I Cataloghi Regionari, un elenco dei monumenti romani redatto nel IV sec.d.c. enumerano ben 150 latrine a Roma, sicuramente latrine pubbliche, altrimenti non sarebbero state incluse nei monumenti cittadini. Dovranno passare duemila anni per rivalutare l’igiene, basti pensare che nel medioevo farsi il bagno più di una volta all’anno era considerato peccato, che nel ‘600 e ‘700 si coprivano coi profumi le conseguenze della scarsissima igiene e che la necessità dell’acqua corrente fu pienamente sentita e attuata nel’900.
- A Roma invece, soprattutto a partire dalla diffusione delle terme e dei bagni ci si lavava in modo completo ogni giorno, adoperando come detergenti soda, liscivia, pietra, ma anche una specie di liscivia oleosa.
- Apuleio nel suo famoso processo decantò l’uso del dentifricio.
- Uomini e donne, molto attenti alla salute e bellezza della pelle, facevano abbondante uso di oli profumati, che ammorbidivano, idratavano ed emanavano gradevoli odori.
Poco sappiamo delle latrine pubbliche e private dei Greci, mentre sono state ritrovate in gran numero nelle rovine di città romane. Nell’antica Roma infatti i bagni privati erano pochi e solo le famiglie abbienti potevano permetterselo. Per il resto della popolazione c’erano le latrine pubbliche, dotate di acqua corrente in perpetuo transito e collocate spesso sotto un portico, per cui il transito era protetto dalla pioggia ma il locale era molto arieggiato.
- Se trattavasi di luogo chiuso veniva servito da numerose finestre sempre aperte.
- Le prime latrine pubbliche sorsero in età imperiale.
- L’acqua dei tetti veniva fatta affluire nelle cisterne per poterla utilizzare, invece le latrine delle case venivano evacuate per mezzo di grossi tubi di terracotta che scaricavano i residui in una fossa, un “pozzo nero”, oppure sullo scolo del selciato.
E’ inconcepibile ai nostri giorni ma nelle latrine pubbliche la gente si incontrava e chiacchierava; non c’era nè il pudore nè la necessità di privacy di oggi, nè tanto meno il fastidio dei cattivi odori. Sulla suddivisione della sessualità i pareri sono discordi: alcuni suppongono che in uno stesso bagno affluissero uomini donne e bambini, assolutamente da escludere almeno per buon senso, altri che nelle latrine di lusso i sessi fossero divisi ma in quelli popolari commisti.
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PULIZIA DELLE LATRINE |
DESCRIZIONE L’ambiente delle latrine era di solito rettangolare o semicircolare e aveva sedili di marmo lungo le pareti, sospesi sopra un canale dove scorreva l’acqua. Due mensole scolpite a forma di delfino servivano da appoggio alle braccia e da separazione col vicino, per comodità e per rispettare gli spazi. Talvolta, al di sopra dei sedili, c’erano delle nicchie con statue di eroi e divinità oppure vi era un altare della Fortuna, come a Ostia, oppure un gioco d’acqua, o una pittura. Talvolta vi era un bassorilievo della Dea Carnea, spesso invocata per il buon svolgimento dei bisogni corporali, oppure della Dea Igea, addetta al’igiene in generale, nonchè alla salute.
- I Romani sapevano che la pulizia della persona e del territorio erano fondamentali per la salute.
- Non a caso la parola Igiene viene dal nome della Dea Igea.
- I Romani non ritenevano il corpo una cosa immonda, per cui non era strano invocare una divinità perchè aiutasse a espletare i bisogni, e a pregare dentro una latrina non era disdicevole.
Sarà il cristianesimo a relegare il corpo e le funzioni corporali nel settore della vergogna. Pertanto i romani trovavano perfettamente normale espellere le feci o espellere aria dall’ano, anzi per queste due funzioni, ovvero perchè avvenissero nel modo migliore, invocavano due divinità: Sterculius per la prima funzione e Crepitus per la seconda.
SPUGNA PER PULIRSI |
L’impianto idrico era costituito da un canale, posto al di sotto dei sedili, lungo come il perimetro della stanza, in cui cadevano gli escrementi, che venivano portati via dall’acqua corrente, fino alla cloaca più vicina. Il canale era rivestito in cocciopesto, l’ottima malta romana con cui si impermeabilizzavano le pareti delle condotte o delle fognature, malta che ha assolto il suo compito in molti casi per ben duemila anni.
I sedili invece per igiene erano generalmente in pietra o marmo, ma in alcuni casi anche di legno, la pavimentazione sempre per l’igiene era in sectile, cioè a lastre marmoree, o in mosaico (tessere di pietra o marmo), materiali che potevano essere puliti sfregando con segatura, o con pomice e sempre tanta acqua.
Le pareti erano dipinte per quel gusto tutto romano di abbellire qualsiasi ambiente, fosse un mercato, un’horrea o una latrina. Davanti ai sedili poi, correva una canaletta nella quale scivolava acqua pulita, per lavarsi come si fa in un bidet. Si detergevano con spugne dotate di manico, che si infilavano sui bastoncini, e dopo l’uso le sfilavano gettandole nell’acqua corrente, da cui sicuramente venivano recuperate, lavate e riproposte all’uso.
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LATRINE DEL 100 A.C. (SICILIA) |
Si sono rinvenuti negli angiporti orinatoi un po’ differenti, formati da anfore o da doli spezzati a giusta altezza. Tali recipienti venivano poi svuotati dai fullones per tingere stoffe e conciare pelli. Questo recupero avveniva anche a Roma tanto che Tito si risentì col padre per la pignoleria di aver tassato i tintori sull’orina raccolta nelle latrine.
Al che Vespasiano rispose: ” Pecunia non olet ” cioè “Il denaro non puzza”. Per ciò che riguarda gli accampamenti il discorso non cambia. I soldati romani non andavano nella boscaglia a fare i bisogni, ma anche lì costruivano latrine. Lo Strategikon (XII, 22) infatti raccomanda la costruzione delle latrine fuori del campo, per evidenti motivi igienici e di respirabilità.
Tuttavia nel De Bello Gallico Cesare dà divieto assoluto che in sua assenza i soldati escano dal campo finchè lui non torna, il che fa pensare che in alcuni casi si tenessero nel campo svuotandole aldifuori con l’ausilio di una pattuglia. Si sa che ad ogni sosta degli eserciti in marcia, venivano preparate delle latrine volanti per le truppe. LE FOGNE
Canali e catene fognarie ne sono state rinvenute nell’antichità ma furono i Romani, già istruiti dagli etruschi, i più mirabili costruttori di cloache. Risale ai Tarquini la costruzione della Cloaca Maxima, che attraversava l’Urbe partendo dalla Suburra verso il Foro Boario e costituiva un enorme sotterraneo di 600 m, alla cui entrata nell’area del Foro sorgeva il tempietto di Venere Cloacina (Purificatrice).
Ciò che oggi rimane della magnifica costruzione risale all’età di Silla e di Augusto. Già Strabone ammirava la Cloaca Maxima per la sua grandiosità e Plinio il Vecchio la afferma incrollabile ed eterna. Nelle città fornite di impianto fognario, le canalizzazioni seguivano i tracciati delle strade. Se il rilievo del terreno lo permetteva, si cercava di creare una rete di canalizzazioni secondarie che sboccavano in un collettore principale, che conduceva le acque putride fuori città.
Si hanno esempi di fognature già nel 100 a.c. LATRINE PUBBLICHE Enuncia il graffito di una latrina ” Dopo aver goduto dei piaceri della tavola è bene fare un salto qui prima di dedicarsi, poi leggeri, ai piaceri dell’amore ” Non solo gli acquedotti contribuivano dunque a mantenere l’igiene e la salute nel popolo romano, uso ai bagni delle terme, ma si disponeva di una vasta rete di bagni pubblici all’interno dei frequentatissimi edifici termali, presso i fori o lungo le vie più trafficate; del resto le terme erano poco costose o addirittura gratuite, per cui ci andavano poveri e ricchi.
Si accedeva infatti pagando una tassa al portiere se queste non erano gratuite per volere dell’imperatore (vedi Augusto) o di un donatore (vedi Agrippa). Le foriche, nelle terme o aldifuori di queste, erano costituite da pesanti basamenti in pietra o in marmo su cui erano posti dei sedili, l’uno accanto all’altro, mentre in basso c’erano delle canalette in cui scorreva acqua corrente, utilizzata per lavarsi con delle spugne infilate su bacchette che venivano, dopo l’uso, lavate e infine gettate nella canaletta, si che ognuno disponesse di una spugnetta pulita per sè solo.
Per ciò che riguarda le insule, la carenza di pressione dell’acqua nelle tubature, comportava che l’acqua riusciva a servire al massimo un primo piano, sempre che non si abitasse in zone troppo elevate. La maggior parte delle insulae, stracolme di abitanti, erano solo dormitori per cui per lavarsi si andava alle terme e per defecare nelle latrine pubbliche, il che già denota un livello sociale ed igienico progredito rispetto all’epoca in cui si usava semplicemente l’orinale che si andava a svuotare nei pozzi neri o si faceva volare il contenuto dalla finestra come avvenne poi nel medioevo.
LATRINA DI VIA GARIBALDI (ROMA) |
Si trattava per lo più di luoghi assai gradevoli e riccamente ornati, con mosaici, stucchi, zampilli d’acqua, talvolta con mensole laterali su cui poggiarsi, o col rilievo di una divinità a cui raccomandarsi per una sana evacuazione, oppure con scene marine, o con immagini di altre divinità non inerenti.
In queste latrine spesso la gente si incontrava e scambiava due chiacchiere riuscendo perfino a strappare qualche invito a pranzo, come osserva spiritosamente Marziale: ” Vacerra in tutte quante le latrine ora stando in una, ora in altra, consuma l’ore e siede tutto il giorno. Egli ha una gran voglia di mangiare.
non quella di cacare ” L’imperatore Vespasiano per rimpinguare le casse dell’impero, non solo tassò i fullonici, ma fece costruire per le strade degli orinatoi a pagamento che da lui presero il nome di Vespasiani, uno dei quali è ancora visibile all’ingresso della Passeggiata Archeologica a Roma. Per entrare nelle foriche pubbliche bisognava dunque pagare una cifra minima, riscossa dal conductor, così come avveniva per l’ingresso alle terme. Ai tempi di Augusto e di Tiberio invece erano gratis, così variando a seconda delle disposizioni, ma furono sempre o gratis o a prezzo minimo, come le terme.
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PITALE ROMANO IN ARGILLA |
Nell’insula, se le latrine erano presenti, stavano al piano terreno, dove l’acqua pulita e quella nera potevano scorrere facilmente dalle condotte che correvano lungo la strada. Gli inquilini avevano un recipiente, detto lasana, in cui venivano svuotati i vasi da notte.
L’urina però veniva recuperata per il lavaggio dei panni e la concia delle pelli. E’ stato ritrovato in Bulgaria nel castrum di Novae, uno dei suddetti pitali, ovvero vasi da notte che venivano usati appunto quando si andava a dormire e ci si svegliava con i bisogni corporali. Come i nostri contadini di un tempo trovavano molto più pratico orinare nel pitale piuttosto che uscire all’aperto.
Marziale narra di orci, i dolia, posti all’angolo delle strade per la raccolta dell’urina e gli svuotatori si chiamavano: fullones, così come la tintoria si chiamava fullonica. L’imperatore Vespasiano per rimpinguare le casse dell’impero, non solo tassò i fullonici, ma fece costruire per le strade degli orinatoi a pagamento che da lui presero il nome di Vespasiani, uno dei quali è ancora visibile all’ingresso della Passeggiata Archeologica a Roma.
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SISTEMA FOGNARIO ROMANO |
La latrina della domus, un lusso in una casa di lusso, veniva collocata a piano terra o al primo piano. Colpisce il fatto che molto spesso la tazza era collocata in cucina, evidentemente per l’utilizzazione delle stesse tubature di carico e scarico. Colpisce sia la mancanza di separazione per gli odori, e pure la mancanza di riservatezza nell’espletare i bisogni corporali.
La mancanza di un luogo appartato per defecare fa comprendere come l’atto fosse considerato con più naturalezza rispetto ad oggi, ma non dimentichiamo l’uso dei re di defecare in una sedia apposita, di fronte ai personaggi di corte, protratto fino all’ottocento. LATRINE AD OSTIA Le latrine erano usuali nelle città romane ai cittadini e ad Ostia, una cittadina fortunosamente conservata se ne sono rinvenute parecchie.
La città, come tutte quelle romane, era dotata di un sistema fognario sin dalla fondazione della colonia nel IV sec.a.c.
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LATRINE DI OSTIA |
Particolare la grande latrina vicina alle Terme del Foro, delle quali faceva probabilmente parte. Vi si scorgono i sedili di marmo allineati lungo i tre muri dell’ambiente, dotati di una serie di doppi fori, orizzontali e verticali, sopra i quali sedere.
Sotto ad essi, in un canale profondo, scorreva l’acqua di evacuazione, proveniente dallo scolo di una delle vasche delle terme, e davanti, nella pavimentazione, una canaletta, alimentata da una piccola fontana, forniva l’acqua per lavarsi. Due porte girevoli, anche qui si nota la modernità dei Romani, davano un accesso rapido e disinvolto all’ambiente.
A sud del Foro, all’inizio del cardo massimo, si trova una latrina pubblica di grandi dimensioni, affiancata da un ninfeo. In molti appartamenti, domus o edifici di riunione, nel sottoscala, è istallata una latrina, a uno, due o più posti. Si possono vedere per esempio nella domus della Fortuna Annonaria, dove la latrina è corredata da una piccola fontana nella parte bassa del muro, nelle case a giardino o nel caseggiato dei Triclinii, sede della corporazioni dei costruttori vicino al foro. Dal peristilio attraverso una porta si perveniva in un cortile a cielo aperto, che aveva la funzione di areare la latrina. La forma è trapezoidale, ai lati, sopra una cloaca, si trovavano i Seggi Marmorei con foro centrale, la latrina era fornita di vaschetta impropriamente detta per le abluzioni.
LA DECADENZA Caduto l’Impero Romano le latrine, private del rifornimento idrico degli acquedotti, caddero in abbandono, si tornò a gettare l’urinale nei pozzi neri, o dalla finestra. Per avere nuovamente il gabinetto in casa bisognerà attendere il ritorno dell’acqua nelle abitazioni, perchè bagni pubblici e latrine pubbliche erano inverecondi, col cristianesimo bisognava ignorare il corpo o meglio mortificarlo, i piaceri andavano evitati e il Dio del sacrificio supplicato e pregato per evitare il peggio.
Nel Medioevo le condizioni igieniche crollarono miseramente portando alla diffusione di molte malattie, tra cui alcune gravi come il tifo e l’epidemia di peste del 14° secolo. L’uso del “vaso” (di rame o terracotta) prese il sopravvento, mentre le latrine pubbliche scomparvero.
BIBLIO – Rodolfo Lanciani – I Commentarii di Frontino intorno le acque e gli acquedotti, silloge epigrafica aquaria – Roma – Salviucci – 1880 – – Water and Wastewater Systems in Imperial Rome – in WaterHistory.org, – International Water History Association – – Sesto Giulio Frontino – R.H. Rodgers (translator) – De Aquaeductu Urbis Romae – University of Vermont – 2003 – – P.
Fedeli – La natura violata. Ecologia e mondo romano – Palermo – 1990 – – Jérôme Carcopino – La vita quotidiana a Roma – Editori Laterza -1971 –
Perché i romani non usavano lo zero?
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ABACO ROMANO |
I romani rappresentavano i numeri con alcune lettere maiuscole dell’alfabeto. Ma lo zero era per loro sconosciuto. Le lettere erano sette in tutto, articolate in modo da formare qualsiasi cifra, in cui il numero rappresentato è dato dalla somma delle lettere che erano: I = uno, V = cinque, X = dieci, L = cinquanta, C = cento, D = cinquecento, M = mille.
La numerazione procedeva così:: Una lettera posta a destra di una lettera più grande si sommava : es: II : 2 – III : 3 – oppure XX : 20 – XXX : 30 – oppure 36: XXXVI (30+5+1) una lettera a sinistra minore della lettera seguente si sottraeva, ma solo per I X C : es: 4 (5-1= IV ) – 9 (10-1= IX ) – 149 (100+50-1= CIL ) – 199 (100+100-1= CIC ) – da cui 29: XXIX (10+10-1+10) – 39: XXXIX – 49: XLIX – 59: LIX – 69: LXIX – Per cui la numerazione procedeva così: 1: I – 2: II – 3: III – 4: IV – 5: V – 6: VI – 7: VII – 8: VIII – 9: IX – 10: X – pertanto: 20: XX – 21: XXI – 22: XXII – 23: XXIII – 24: XXIV – 25: XXV – 26: XXVI – 27: XXVII – 28: XXVIII – 29: XXIX – 30: XXX – il tutto si ripeteva con: 30: XXX – 40: XL – 50: L – 60: LX – 70: LXX – 80: LXXX – 90: XC – 100: C – le centinaia diventavano: 100: C – 200: CC – 300: CCC – 400: CD – 500: D 600: DC – 700: DCC – 800: DCCC – 900: CM le migliaia pertanto diventavano: 1000: M ma dopo M non c’erano altri simboli.
Per indicare più migliaia si poneva un trattino sopra la lettera:
V = 5.000 X = 10.000 L = 50.000 C = 100.000
Per cui il numero 1550 sarà MDL, il numero 1549 sarà invece: MDXLIX e 1554 sarà: MDLIV, Bordando invece una lettera con due linee verticali ai lati ed una orizzontale sopra, viene moltiplicata per 100.000:
V = 500.000 X = 1.000.000 L = 5.000.000 C = 10.000.000 D = 50.000.000 M = 100.000.000
Questo sistema fu utilizzato soprattutto nel tardo Impero, perchè nell’antica Roma, i numeri venivano solo aggiunti e mai sottratti, Quindi 4: IIII – 9: VIIII – Infatti spesso si insegna che i numeri romani erano scritti così: IV per 4, IX per 9, XC per 90 ecc.
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ABACO ROMANO |
Il calcolo Per fare i calcoli i Romani non usavano la numerazione scritta, ma sassolini, che in latino si chiamavano “calcoli”, che venivano infilati nelle scanalature di un abaco. Le prime lettere dell’alfabeto furono disegnate su tavolette ricoperte di sabbia; solo successivamente la sabbia venne sostituita dalla cera e le lettere venivano incise con un legno o con un ferro appuntito chiamato “stilo”.
I – unus II – duo III – tres IV – quattor V – quinque VI – sex VII – septem VIII – octo IX – novem X – decem C – centum M – mille (plurale milia da cui il termine miglia)
BIBLIO – John Weale – Rudimentary Dictionary of Terms Used in Architecture Civil, Architecture Naval, Building and Construction, Early and Ecclesiastical Art, Engineering Civil, Engineering Mechanical, Fine Art, Mining, Sur-veying, Practical Art and Science – London – ed.J.
Quante volte si lavavano i Romani?
In et Repubblicana lavarsi era una esigenza esclusivamente pratica; ci si vergognava a lavarsi con altre persone, c’era la vergogna di essere visti completamente nudi. In casa(nelle domus),i bagni erano spesso situati a fianco alla cucina, perch sfruttavano la stessa fonte di calore.
I bagni non erano raffinati, ma erano grezzi, oscuri con pavimenti non lavorati; in et repubblicana era esclusivamente una questione di esigenza pratica, non un piacere, e un lavaggio completo veniva fatto una volta alla settimana, e le braccia e le gambe spesso non venivano lavate per evitare che il sudore ungesse il resto del corpo.
Catone si vantava che non aveva mai fatto il bagno con il figlio. All’epoca di Cornelio Scipione, l’acqua per lavarsi era anche abbastanza torbida; la popolazione normale si lavava quando poteva nel Tevere. In et Imperiale tutto cambia, si sviluppano le Terme, e non c’ pi la vergogna di lavarsi in gruppo; scoppia la mania dell’estetica, della cura del corpo, dell’avere un bel fisico e depilato.
- Nascono cos le Terme, complessi termali in cui era possibile non solo lavarsi, ma anche dedicarsi a tutte quelle pratiche estetiche riguardanti la cura per il corpo: fare palestra, depilarsi, lavarsi, fare la sauna, massaggi, fare ginnastica, giocare a palla.ecc.
- Era scoppiata una moda, e le terme per soddisfare i bisogni dei romani, si trasformarono col tempo in stabilimenti termali e centri-benessere con integrazione di un centro estetico nel senso in cui lo intendiamo noi.
Le terme aevano una parte riservata alle donne e una riservata agli uomini, le parti non erano comunicanti. Sia gli uomini che le donne usavano creme per coprire la pelle delicata del viso dai continui sbalzi di temperature tra le sale con l’acqua fredda, l’acqua tiepida e le sale con acqua calda e molto calda.
Nelle terme ci si lavava con oli profumati e il sapo, che era costituito da ceneri vegetali e grasso animale, e anche con pietre pomici e pietre fatte di argilla. Le Terme divennero sempre pi lussuose con ornamenti di vario genere. La gente vi si recava almeno una volta al giorno(i Romani dell’et Imperiale erano molto puliti), c’erano anche gli eccessi, come nel caso dell’Imperatore Commodo che si lavava 7 o 8 volte al giorno effettuando un lavaggio completo.
Si curava il corpo fino la narcisismo; non dovevano esserci peli che uscivano dal naso o dalle orecchie, si rifacevano le sopracciglia, ci si depilava il petto e le ascelle, le braccia e le gambe, ci si tagliava i capelli con tagli alla moda e la barba; ci si curava di non avere l’alito cattivo, si usavano infatti colluttori e oli; e nessuno sdegnava un manicur e piedicur.
Ci si tingeva i capelli e si usavano vari cosmetici per il corpo. Molto richiesta era la sauna e la pratica di cospargersi di oli profumati il corpo e con un panno stringerlo intorno al corpo per migliorare l’assorbimento dell’olio nella pelle e togliere cos lo sporco e il sudore. Il concepimento di questa cultura della cura del corpo prende piede nel I secolo d.C.
Era divertente e piacevole andare alle terme e cos i bagni privati nelle domus smettono di essere utilizzati. Le grandi Terme nascono con Nerone e nel IV secolo abbiamo ben 170 stabilimenti termali in tutta Roma, pi 900 stabilimenti balneari pi modesti.
Come portavano i capelli gli antichi romani?
Ovidio consigliava nell’Ars Amandi: ” Ogni donna scelga, davanti allo specchio, la pettinatura che maggiormente le dona. Un volto lungo vuole capelli divisi sulla fronte, con semplicità. Un viso tondo, capelli raccolti a nodo sopra il capo, con le orecchie scoperte, oppure sciolti sulle spalle.
Ci sarà poi chi preferisce i capelli inanellati; chi i capelli stretti alle tempie; chi acconciati finemente, con mille pettini; chi sciolti in grandi onde. Qualcuno amerà la testa falsamente trascurata, che in realtà richiede più cure di tutte. La canizie avanzate potrà essere mascherata con una tintura; né mancherà chi porterà sul capo i capelli di un’altra, vantandosene come fossero suoi.
” Le fanciulle romane raccoglievano i capelli in massa senza scriminatura centrale, in un nodo legato dietro la testa con un nastro dal quale li facevano ricadere spioventi sul collo. Insomma una coda di cavallo. Solo con le nozze potevano cambiare la pettinatura da ragazzina in un’elegante acconciatura da matrona.
- I primi stili furono abbastanza semplici: dalla ciambella e chignon all’usanza di legare strettamente i capelli alla sommità della testa con dei nastri, all’usanza etrusca.
- Poi queste semplici pettinature vennero sostituite con grandiose creazioni che per altezza e complicazione non hanno avuto rivali fino alla corte francese di Luigi XVI.
La pettinatura era così importante che venivano commissionate acconciature rimovibili per i busti, in modo che l’immagine della persona ritratta venisse ricordata al culmine della moda dell’epoca.
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ESEMPI DI ACCONCIATURE ROMANE |
Ma la moda cambiò comunque secondo i tempi e le donne che contavano, come l’imperatrice, ma nell’antica Roma si ritenevano particolarmente eleganti le acconciature etrusche: annodati o intrecciati dietro le spalle, a boccoli sulle spalle, annodati a corona sul capo o raccolti in reticelle o cuffie.
In epoca flavia le donne si fecero acconciare i capelli in complicatissimi riccioli, ma poi cambiò di nuovo, con lunghe trecce disposte come torri sulla sommità della testa che Giovenale, che con le donne aveva un conto personale, irride non poco per l’acconciatura che fa sembrare più alte le matrone.
Per tutto ciò comunque c’erano le “ornatrices”, le schiave specializzate nelle pettinature. Diademi e coroncine, o spilloni di metallo prezioso completavano le preziose acconciature. L’operazione più complicata era senza dubbio quella dell’arricciatura, che veniva eseguita con il calamistrum, uno strumento ad hoc preparato da schiavi appositamente scelti per quel compito, i cinerarii; esso consisteva in una canna di metallo internamente vuota che veniva scaldata nella cenere permettendo così la messa in piega desiderata.
Ovidio descrive dettagliatamente come le eleganti dame romane sfoggiassero in ogni occasione una pettinatura diversa, sempre più raffinata e «carica» di riccioli. Per rendere lucidi i capelli si utilizzava grasso di capra, cenere di legno di betulla e olio d’oliva, mentre per fissare la pettinatura si ricorreva allo sterco bovino, all’argilla, alla cera o al burro.
Infine si spruzzava sui capelli acqua fortemente profumata.
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SPILLONI PER CAPELLI |
LE TINTURE Spesso gli Dei erano considerati biondi, forse perchè nel mondo mediterraneo erano rari i capelli chiari, ma anche per le donne essere bionde o rosse erano un fascino in più. Nel medioevo sparirono invece le tinte che erano diaboliche e diventarono diaboliche anche le donne coi capelli rossi, ree di farsi notare.
- Per essere bionde le romane usavano posticci di chiome di barbari nordici, oppure spargevano sui capelli una porporina d’oro di grande effetto (e largo uso).
- Ma esisteva anche lo schiarimento con una mistura di limone ed acqua distillata di fiori di ligustro.
- In età imperiale si usò molto l’henné (cypros) che veniva dall’Egitto e divenne anche di gran moda tingersi di biondo.
In più c’erano saponi particolari, come le ” Spumae Batavae “, provenienti dall’attuale Olanda, o le palle di sapone prodotte vicino Wiesbaden (pilae Mattiacae, Marziale), usati per schiarire i capelli o tingerli di rosso o di nero corvino. Le tinture provenivano specialmente dal Nord Europa (Germane herbae, Ovidio – Ars Amatoria).
- Le tinture arrivavano dalle più svariate parti dell’impero: l’henné, ad esempio, molto usato durante l’epoca imperiale, veniva dall’Egitto.
- Le tonalità erano estremamente varie e pare arrivassero fino all’azzurro.
- Plinio riferisce di una tintura rossa fatta di cenere e sego che veniva usata anche come sapone.
I colori usati variarono sempre di più toccando il verde e l’azzurro, colori però usati soprattutto dalle etere (prostitute di lusso), ma anche le donne più libere le fecero uso. Per dare un riflesso ramato ai riccioli che incorniciavano il volto però Plinio consigliava il fiore del cipero, che cresceva a Gerico.
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ACCESSORI ROMANI PER CAPIGLIATURE |
COPRIRE I CAPELLI Anticamente le donne romane sposate si riconoscevano in strada perché indossavano un copricapo, anticamente chiamato “rica”. A volte a coprire la testa poteva essere il lembo della palla, sistemato come un cappuccio. Sembra che Sulpicio Gallo, come racconta lo storico Valerio Massimo, avesse ripudiato sua moglie in epoca repubblicana perché si era mostrata in pubblico a capo scoperto. Questo a causa dei castigati costumi che i romani avevano loro propinato in era monarchica e repubblicana, ma verso la fine della repubblica e soprattutto nell’impero, le donne tolsero il velo dal capo adornandosi le chiome in vari modi. Quasi sempre ponevano nastri sui capelli a diverse altezze, su una pettinatura raccolta dietro a crocchia, ma a ricci sciolti sul davanti, prima solo rossi poi di diversi colori, i nastri erano di bisso, di seta e talvolta di velo, oppure dorati o tempestati di paste vitree o perle o gemme.
D’estate però le matrone portavano il cappello conico detto “tholia”. In un affresco rinvenuto nella Casa dei Dioscuri a Pompei è rappresentata davanti a una capanna di canne una donna seduta con un cappello in testa dalla forma conica, appunto il ‘tholia’, che era a tutti gli effetti un cappello di paglia.
Usavano spesso pure una fascia piuttosto alta, il tutulus. che formava sui capelli un cono aperto in cima; spesso era di feltro ma rivestito di seta, o in damasco o con veli ritorti intrecciati a formare rombi. Oppure ponevano una retina sottile, fitta o a rombi, di seta a cordoncino o di metallo argentato o dorato, ma pure in argento e d’oro, o tutta d’oro. Ma i posticci non si usavano solo per la calvizie, perchè erano un vezzo, si mettevano finti chignon dietro la nuca avvolti poi con i propri capelli, in ogni caso i posticci servivano a rendere le capigliature più voluminose, fino a ricordare a volte certe monumentali parrucche francesi del ‘600.
Talvolta il posticcio era il cercine, le trecce annodate sul capo che usavano le antiche romane per porre i pesi sulla testa senza schiacciare troppo il capo, talvolta misto a stracci di stoffa. Ad esempio Vibia Sabina, la moglie di Adriano, lo pose sulla fronte come ornamento lanciando una nuova moda.
Nelle acconciatura c’era tutto, dai capelli posticci alle parrucche, ai toupet, alle extensions, dalla messa in piega agli chignon, alle trecce, ai boccoli, ai ricci, dagli spilloni ai diademi, alle coroncine, ai veli, dalle forcine alle mollette, ai fiocchi, ai nastri, alle perle, alle sferette d’oro.
- Per non parlare delle lacche per i capelli, dei profumi, delle colorazioni, dei decoloranti, delle permanenti, insomma non si fecero mancare nulla.
- Quel che è certo è che solo i ricchi potevano permettersi certe pettinature, perchè occorreva avere schiave ben addestrate e tanto tempo da perdere.
- Naturalmente i pettini e le spazzole erano di ogni foggia, materiali e colori, lo stesso per gli spilloni, ornati, incisi, scolpiti, ma pure i fermagli tondi, a molla, piatti, e i pendagli d’oro e d’argento, oltre alle coroncine e i cerchietti.
La toletta di una matrona richiedeva minimo un’ora di lavoro e il risultato era una complicata scultura a onde, a ricci, a bande, a volute, a boccoli. Insomma un’opera d’arte che seguiva una moda ma che spesso lanciava una moda, con infinita fantasia e nello stesso tempo con precisione chirurgica, perchè nel capolavoro non doveva apparire una forcina o un pettine che sostenesse quell’aggrovigliata e pure composta e ordinata architettura.
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FAUSTINA MINORE MOGLIE DI MARCO AURELIO |
FAUSTINA MINORE (125 – 175) Faustina che indossa una leggera veste crespata con sopravveste morbida. porta una capigliatura ad onde che forma uno chignon di trecce sulla nuca, mentre sul davanti i capelli sembrano corti ma non lo sono. Infatti scendono dalla sommità del capo in modo simmetrico con bande ondeggianti che disegnano un’onda che dopo aver sfiorato il volto della dama risalgono con geometria perfetta celandosi dietro l’onda successiva di capelli che circondano il volto passando dall’altro lato in modo perfettamente speculare.
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LIVIA AUGUSTA MOGLIE DI OTTAVIANO AUGUSTO |
LIVIA AUGUSTA (58 a.c. – 29 d.c.)
OTTAVIA SORELLA DI AUGUSTO |
L’augusta si era concesso un grosso boccolo sulla fronte, all’indietro naturalmente, poche onde sui lati, e un coacervo di trecce raccolte dietro la nuca e in basso, che rieccheggiava lontanamente l’antica pettinatura greca. Livia Augusta non ha mai brillato nè per raffinatezza nè per eccentricità, purtuttavia, essendo l’augusta, dettava la moda, tanto è vero che pure la sorella di Augusto si fece immortalare con la medesima pettinatura.
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DRUSILLA SORELLA DI CALIGOLA |
GIULIA DRUSILLA (16 – 38) La sua pettinatura è un capolavoro. Sembrerebbe semplice, perchè dietro ha una treccia che si allunga sul collo e torna su raccolta da un fermaglio. Intorno al viso i capelli sono tutti a onda, con una fascia di metallo che li orna e li tiene fermi.
- Ma il capolavoro è negli anellini che spuntano dalla capigliatura sul viso, ornandolo con tanti anellini fin davanti alle orecchie.
- Potrebbe trattarsi di ricciolini ricavati dalle ciocche pendenti ma non è così.
- Le romane non tagliavano i capelli sul viso, ma dalla scriminatura portavano delle bande che incorniciavano il volto.
Talvolta, come in questo caso, sotto l’ultima banda bilaterale di capelli veniva posta una retina leggera a cui venivano appesi ciondolini o cerchietti leggeri, di argento o d’oro.
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AGRIPPINA MINORE MADRE DI NERONE |
AGRIPPINA MINORE (16 – 59) Agrippina Minore è molto meno parca della passata augusta, e i suoi capelli sonoarrotolati a riccioli e fissati con forcine e fissatori sul davanti, mentre dietro prevedono boccoli sciolti e al centro boccoli raccolti e legati insieme sotto la nuca, che scendono sul collo come i boccoli ai lati.
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DONNA ROMANA I SECOLO |
DONNA ROMANA I SECOLO In questa pettinatura c’è tutto, ma posto in elegante armonia. C’è il morbido rotolo di trecce sul collo, una specie di copricapo, probabilmente di capelli posticci terminante con ampia treccia, le due bande morbide di capelli sulla fronte e i molteplici e fittissimi ricci accostati al viso. La parrucchiera è un’artista (ma probabilmente sono più d’una).
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POPPEA SABINA MOGLIE DI NERONE |
POPPEA (30 – 65)
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POPPEA SABINA |
Da notare la differenza tra la giovane Poppea e la Poppea più matura, diverse non solo nell’espressione ma nell’acconciatura. La giovinetta ha la pettinatura dell’epoca, che ricorda un po’ Agrippina. C’è una fioritura di riccioli con un cappellino in cima, probabilmente una coroncina di pietre e perle fissate ai capelli.
Sul collo invece scendono boccoli perfettamente inanellati fino alle spalle. Ed ecco gli hairstyles di Poppea più adulta, che aveva le sue predilezioni. Ancora boccoli sulle spalle all’uso etrusco, ricci sulla fronte e/o boccoli, e/o nastri arrotolati e fissati, o, come qui, un prezioso diadema con nastri e ricci vari.
Poppea non amava la semplicità.
MARCIANA SORELLA DI TRAIANO |
ULPIA MARCIANA (48 – 112) Siamo nel I sec.d.c., e l’amatissima sorella di Traiano dettò la moda così: capelli dietro tirati sulla nuca e avvoltolati a formare uno chignon, in realtà una specie di pizza. Ma è la moda dei diademi, le romane diventano esigenti e spendaccione, con grande scandalo degli anziani.
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DONNA ROMANA PRIMO SECOLO |
DONNA ROMANA I sec. Ecco nello specifico i preziosi boccoli, bagnati prima e inanellati poi su appositi ferri caldi, notare la precisione dell’esecuzione, sia come capigliatura che come scultura.
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DONNA ROMANA META’ DEL I SECOLO |
MATRONA ROMANA del I sec.d.c.
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DONNA ROMANA META’ I SEC.d.c. |
Si ha questo esempio di donna romana con elaboratissima acconciatura a boccoli stretti e fitti. Dietro la nuca è avvolta da trecce vicine che le fanno da copricapo, mentre i cotonatissimi riccioli davanti le fanno quasi da cappello. Non si sa chi è ma sicuramente è un’aristocratica, a meno che non sia la moglie di un liberto arricchito.
La sua capigliatura, ammesso che sia la sua, perchè i posticci a Roma erano di gran moda, le incornicia un volto anziano, serio e non molto allegro. Si sa che gli artisti romani erano tanto divini nella ritrattistica, in cui batterono gli stessi greci, quanto impietosi nella fedeltà all’originale. Ma evidentemente ai realistici romani la cosa non dispiaceva, altrimenti avrebbero richiesto alcuni ritocchi, come sicuramente accadde col volgere dei secoli.
Ed ecco qua un’altra statua che per giunta ha conservato il suo colore, che ci fa ammirare nel dettaglio questi capolavori di capigliature. Notare come i riccioli fittissimi ricadessero ai lati appena sotto le orecchie in bande più leggere. Dietro la nuca vi è poi un capolavoro di costruzione con trecce perfette (senz’altro posticce) ma allineate perfettamente, con movimenti e con giri precisi, come a formare un tessuto damascato.
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DONNA ROMANA INIZIO II SECOLO |
DONNA ROMANA INIZIO II sec. Questa capigliatura somiglia alla precedente, elaboratissima, tanto da sembrare una capigliatura con cappello, ricordando certi cappellini stile impero dopo la rivoluzione francese.
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IULIA TITIA |
IULIA TITIA (64 – 91) La bella Iulia. figlia di Tito, che per sua fortuna poco somigliò al genitore, con una ampia pettinatura di riccioli scriminati al centro che le circondano interamente il capo, però senza diademi.
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SALONINA MATIDIA SUOCERA DI ADRIANO |
SALONINA MATIDIA (68 – 119) E’ l’apoteosi del diadema in materiale difficilmente intuibile, infatti le romane sul loro capo mettevano di tutto, ornamenti in feltro, piume, nastri, in argento dorato o in oro puro, in pasta vitrea, oppure in cuoio, in osso e in corno debitamente scolpiti o incisi. L’acconciatura sembra un’evoluzione di quella di Ulpia Marciana. PLOTINA (70 – 121) Plotina, la malinconica moglie di Traiano, ha anch’essa, come Marciana, un diadema. però liscio sopra e in basso lavorato a ricci. I ricci sul diadema, di cui ignoriamo il materiale, ma che si potrebbe ipotizzare d’oro, ha riccioli grandi che ricordano le antiche guarnizioni ad onda degli etruschi.
Sotto c’è il solito codone appiattito ma arricciato a foggia di capelli, e sulla sommità del capo si leva, come a tenere la mezza cupola, un cerchio di metallo che si direbbe borchiato sul retro. Il diadema è raffinatissimo, forse realizzato in materiali diversi, e fa pensare appunto al casco di una regina orientale, sicuramente ispirato alle terre dell’est.
D’altronde i romani si ispiravano a tutto e a tutti, rielaborando però con un sapiente ed elegante tocco romano. FINE I SECOLO
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DONNA ROMANA FINE I SECOLO |
Ecco un’altra capigliatura di non sappiamo chi, di certo un’aristocratica dal viso fine e bello, anche se piuttosto serio. Ricorda lo stile anni 20, quei famosi turbantini tanto amati dalle dive del cinema e dalle donne del bel mondo. Adesso sappiamo da dove si sono ispirati tante acconciature e pure tanti cappelli.
Si può dire anzi, guardando le acconciature, che tutti vari stili moderni e passati si sono riferiti a loro. Si può dire che la moda sia iniziata qui perchè queste finte trecce di vari colori, mirabilmente intrecciate a formare un simil turbante sono di grande fantasia. diciamo simil turbante perchè questa acconciatura non copre le orecchie, perchè lo strato che circonda il volto è in realtà fissato con spille varie al copricapo superiore.
l’estrema fantasia di questa pettinatura non è solo la foggia, ma il fatto che si è mescolato molto abilmente la lana ai capelli posticci e ai capelli veri.
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FAUSTINA MAGGIORE MOGLIE DI ANTONINO PIO |
FAUSTINA MAGGIORE (105 – 140) Anche se non bellissima Faustina fu molto amata, dall’imperatore e dal popolo. Come si vede, la capigliatura ha molte onde ma pochi ricci. il che denota una certa serietà di costumi, e forse fu amata anche per questo. Non manca la lunga treccia che traversa la nuca in più giri fermata non si sa dove, ma questo era uno dei pregi maggiori delle pettinature di alta moda.
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DONNA ROMANA META’ II SECOLO |
DONNA ROMANA META’ II SECOLO Bellissimo il volto, bravissimo l’artista e straordinario l’effetto, vista di fronte potrebbe essere una fanciulla stile liberty dei primi ‘900. Elegantissimi i ricci molto allungati sulle guance e sul collo, ed elegantissimo pure il cerchio sui capelli (che sembra moderno) legato sulla nuca.
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FAUSTINA MINORE MOGLIE DI MARCO AURELIO |
FAUSTINA MINORE (125 – 175) Ecco ancora uno stile di capelli del tutto nuovo, capelli aderenti come una calotta, con gruppi di trecce che si incrociano dietro la nuca. Un nastro passa intorno al viso fermando i riccioli lievi come onde del mare, probabilmente un nastro d’oro a molla che finisce senza congiungersi in due riccioli volti in basso.
Sopra al capo la usuale calottina che slancia il viso e fa sembrare più alte. Naturalmente è costituita da trecce raccolte a cerchio sul capo. Si sa che le romane solevano anche rivestire i capelli con retine d’oro o veli con colori pastello che davano compattezza e precisione alla forma della capigliatura.
RAGAZZA ROMANA metà del II sec.
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RAGAZZA ROMANA META’ II SECOLO |
Ecco il volto di una ragazza romana di ceto elevato, si capisce dalla capigliatura molto elaborata, eseguita da una schiava provetta, o da più schiave insieme. La ragazza non solo ha una particolare pettinatura a bande ondulate e poi raccolte con grande precisione, ma ha un copricapo.
E’ un cappello piuttosto insolito, ma non perchè, come immaginiamo, ne mancassero in giro di simili, ma perchè a noi mancano le immagini dei cappelli dell’epoca. Ne abbiamo degli esempi dalla pittura, perchè nella statuaria tuttalpiù si sfoggiavano diademi e gioielli. Questa giovinetta invece mostra un cappellino piatto che doveva essere vuoto al centro, un po’ come il famoso “tutulus”, si che da lì fuoriuscissero ciocche di ricci che andavano a coprire parte del cappellino, come si osserva sui lati.
ANNIA LUCILLA (150 – 182)
ANNIA LUCILLA |
Ed ecco Annia Lucilla, moglie dell’imperatore Lucio Vero, con un diadema di cui si ignora il materiale, ma che potrebbe essere anche d’oro, un crescente lunare simile a quello della Dea Diana. I suoi capelli sono composti ad ampie onde con volute irregolari e simmetriche che coprono completamente le orecchie.
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VIBIA SABINA MOGLIE DI ADRIANO |
VIBIA SABINA (83 – 136)
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VIBIA SABINA |
Ecco la giovanissima moglie di Adriano (appena dodicenne) già agghindata per il suo destino di moglie e di augusta. La pettinatura è costituita da trecce raccolte strettamente sulla nuca con sul davanti una cascata di riccioli “inamidati” con varie sostanze, con una fascia probabilmente di cuoio dorato inciso che sosteneva la cascata di riccioli.
Qui sotto invece la Vibia adulta, bella ed elegante, con un sobrio e morbido nodo di trecce sul capo e bande morbide di capelli annodati all’indietro. A lato una pettinatura di trecce e nastri con una fascia sulla fronte che tiene fermi i due immancabili ricci davanti alle orecchie. DOMIZIA LUCILLA (.
– 160 circa)
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DOMITIA LUCILLA MADRE DI MARCO AURELIO |
Donna pia e generosa”, come la definì suo figlio, l’imperatore Marco Aurelio. Molto interessante la variazione dei gusti, qui la pettinatura, totalmente assente di ricci ma ricca di onde, è nel suo insieme piuttosto squadrata. Questo non è dissonante però dal personaggio, donna dal volto un po’ squadrato e dall’animo forte.
C’è però un vezzo poco pronunciato ma importante nell’insieme, e sono i riccioli che sfuggono alla precisa acconciatura della nobildonna. Infatti sembrerebbero riccioli non tanto sfuggiti quanto voluti dall’acconciatrice in questione. Senza dimenticare che a Roma vi fu anche la moda di portare fili con ciondoli leggerissimi dietro la nuca, sostenuti da fasce o nastri.
Ma non è questo il caso. IULIA DOMNA (170 – 217)
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JULIA DOMNA |
Si nota un certo imbarocchimento nell’evoluzione delle capigliature verso la fine del II secolo. In questa immagine la capigliatura somiglia un po’ a una parrucca, pur conservando l’abilità dell’esecuzione. Iulia Domna è la moglie dell’imperatore Settimio Severo e questa conciatura le conferisce un po’ l’aria da imperatrice.
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CORNELIA SALONINA MOGLIE DI GALLIENO |
Anche le acconciature possono raccontare la decadenza dei tempi. Moglie sfortunata di un marito valoroso e sfortunato che venne ucciso a tradimento. Cornelia ha un’aria alquanto diffidente e preoccupata, e il suo scultore l’ha colta tutta. La capigliatura è ad onde, ma con delle innovazioni.
Sulla fronte c’è la fuoruscita di una cortissima frangia e dietro sul collo, purtroppo danneggiato dalla famosa iconoclastia religiosa, si raccoglie una lunga e morbida coda avvoltolata con cura, che torna sul capo fissandosi alla sommità della testa. L’effetto non è del tutto brillante, un po’ per il viso tirato e non bellissimo dell’imperatrice, un po’ per l’effetto cresta che mascolinizza ancor più un volto non particolarmente femminile.
E’ innegabile però ancora una volta l’abilità delle parrucchiere imperiali. SALLUSTIA ORBIANA Ignoriamo la data sia di nascita che di morte di questa augusta che regnò pochissimo tempo, circa due anni, a fianco dell’imperatore Alessandro Severo. Dobbiamo prendere atto che nonostante i capelli siano composti e trattati col ferro caldo per farne una specie di permanente, ripresa quasi due millenni dopo nella moda degli anni trenta, il complesso dell’acconciatura non possiede più la fantasia e l’estro che aveva caratterizzato le acconciature delle matrone romane.
Come facevano l’amore gli antichi romani?
Per la mentalità romana, uno schiavo era una proprietà della quale disporre come meglio si credeva, anche a livello sessuale. L’importante, come sempre, era rispettare la gerarchia sociale: uomini e donne liberi non potevano lasciarsi penetrare dai propri schiavi né praticare a loro del sesso orale; non dovevano insomma dargli piacere in alcun modo mentre gli schiavi erano obbligati a soddisfare i loro padroni.
Perché i francesi non si lavavano?
Perché i francesi non usano il bidet? Perché il Re Sole non si lavava? La storia del sanitario più discusso di sempre Il bidet (sembrerà strano a chi ancora non lo sa) è stato inventato in Francia, ovvero uno dei luoghi dove meno si è diffuso. Viene dunque spontaneo chiedersi come mai proprio i francesi non lo abbiano mai accettato di buon grado e una risposta, o forse più di una, pare ci sia.
Quando Monsieur Alphonse Bidet, valdostano emigrato a Parigi, ideò la sua innovativa invenzione corse subito a presentarla alla Corte del Re Sole, ma Sua Maestà Luigi gli diede un bel due di picche: benché comprendesse bene – come gli fece sapere – l’essenziale utilità dello strumento, il Re non reputava necessario trattare il proprio fondoschiena come se fosse una faccia, ovvero dandogli importanza e cure particolari.
Il signor Bidet, in ogni caso, non era francese bensì valdostano. L’invenzione, guardata con disprezzo dai nostri ‘cugini’ d’Oltralpe, ebbe invece in seguito fortuna in Italia, grazie al nipote del suo inventore, tale Antoine Bidet, tenente di fureria nelle truppe napoleoniche.
Furono poi alcuni discendenti di Bidet a proporre l’invenzione alla Regina Vittoria, ma anche la Gran Bretagna rifiutò l’offerta, perché Sua Maestà trovò scomodo quell’oggetto. A fare (quasi) fortuna con l’invenzione del valdostano fu invece un francese, tale Christophe Des Rosiers, che ne acquisì i diritti e prese a commercializzarlo, facendo cadere nell’oblio il nome di Bidet, tanto che ancora oggi c’è che ritiene che la parola ” bidet ” derivi da ” pony “, per via della somiglianza fra la postura che si assume sul sanitario e la posizione di quando si è seduti sul cavallino.
Ad ogni modo anche per Des Rosiers non fu semplice convincere i re ad adottarne l’utilizzo. A Versailles ne vennero montati un centinaio, ma furono dismessi tutti nel giro di pochi anni perché ritenuti inutili, I pochi esemplari utilizzati finirono nelle case d’appuntamenti, per ovvie ragioni.
- L’igiene personale, come è noto, non era prioritaria per i reali francesi.
- Si dice che il Re Sole, anche dietro consiglio dei medici, si lavasse raramente, per paura di contrarre malattie,
- Da questa abitudine assai diffuse, pare, sia nata l’arte profumiera francese: tentare di coprire con il profumo il cattivo odore era l’unico modo per poter vivere in società, per quanto l’usanza fosse diffusa e conclamata.
Solo le prostitute si lavavano frequentemente, E’ così che, anche nel ‘900, il bidet è rimasto un oggetto sgradito, tanto che dagli anni ’70 si è deciso di eliminarlo dalle abitazioni, per ragioni economiche e di spazio. In Italia il bidet si diffuse capillarmente dalla seconda metà del Settecento, quando la Regina di Napoli, Maria Carolina d’Asburgo – Lorena pretese un bidet nel suo bagno personale alla Reggia di Caserta, senza preoccuparsi che l’etichetta francese considerava il bidet ” strumento di lavoro da meretricio “.
- Grazie a questa scelta il sanitario si diffuse in Italia, partendo dal Regno delle Due Sicilie per poi estendersi al resto della Penisola.
- Dopo l’Unità d’Italia, nella Reggia di Caserta i funzionari sabaudi si trovarono di fronte al bidet che non conoscevano e nel redigere l’inventario degli oggetti presenti, lo indicarono come ” oggetto per uso sconosciuto a forma di chitarra”.
: Perché i francesi non usano il bidet? Perché il Re Sole non si lavava? La storia del sanitario più discusso di sempre
Come facevano gli antichi con le carie?
Come si curavano i denti gli antichi? Gli antichi popoli mesopotamici si pulivano i denti con un miscuglio di corteccia, menta e allume (un sale minerale). Gli antichi indiani mescolavano estratti vegetali di crespino e pepe; in Egitto, durante la dodicesima dinastia, le principesse utilizzavano verderame e incenso, ed un impasto a base di mirra dolce e fiori come il croco.
Anche nell’antica Grecia era molto la questione dell’ : l’esigenza di proteggere i denti era nota e per sfoggiare un sorriso fresco si faceva uso di un impasto di sale, miele e rosmarino. Per curare le carie, invece, si procedeva con risciacqui tenendo in bocca oppio, pepe e alcune erbe medicamentose essiccate, mentre nei casi più gravi e quando mal di denti era molto violento, si procedeva con l’avulsione dell’,
Da diverse fonti inoltre, possiamo dedurre che i Greci facevano largo uso in ogni campo delle proprietà disinfettanti dell’argento. Tutte le culture dell’antichità conoscevano gli stuzzicadenti e prevenivano l’alitosi e i disturbi gengivali masticando bastoncini aromatici, come il siwac, un bastoncino ricavato dalla pianta arak (salvadora persica) tuttora molto in voga nei paesi arabi.
Le prime testimonianze di un vero e proprio spazzolino con setole, simile a quello odierno, risalgono al 1500 in Cina. Le fibre, però, essendo naturali, erano troppo morbide, si deterioravano e diventavano rapidamente ricettacolo di batteri. Finalmente nella metà del XIX secolo in America si produsse il primo “Miracoloso Spazzolino a ciuffi del dott.
West” a fibre sintetiche (nylon) e nel 1872 Samuel B. Colgate inventò il primo dentifricio a base di sali minerali ed essenze rinfrescanti. Nel 1911 a Dresda in Germania si realizzò la Prima Esposizione Internazionale d’igiene, nella quale convennero milioni di visitatori: i prodotti per l’igiene dentale si moltiplicarono e si diffusero divenendo beni di consumo di massa, accessibili a chiunque.
- Nel mondo odierno assistiamo a gravi disuguaglianze nella cura della salute orale.
- Nei paesi ricchi il mal di denti è ormai debellato, con la prevenzione e le terapie odontoiatriche adottate per conservare a lungo il buon funzionamento dell’apparato masticatorio, per correggere la posizione dei denti e per migliorare l’aspetto del sorriso.
Nei paesi poveri, invece, le persone vivono ancora le più comuni sofferenze e la perdita dei denti, con grande danno per la qualità della loro vita. E tu, vuoi conoscere lo stato di salute dei tuoi denti? Prenota una visita : Come si curavano i denti gli antichi?
Come avevano la barba i romani?
Il tonsor – La cura della persona era completata affidandosi al tonsor, il barbiere, privato e costoso per i più ricchi, o pubblico che nella sua bottega o all’aperto in strada, tagliava capelli e sistemava barbe. Nel II secolo d.C. l’esigenza per i più raffinati di recarsi più volte al giorno dal barbiere fa sì che le loro botteghe diventino luogo d’incontro per oziosi, secondo alcuni:
( LA ) «Hos tu otiosos vocas inter pectinem speculumque » | ( IT ) «Chiamali oziosi questi tra il pettine e lo specchio» |
secondo altri invece la moltitudine che s’incontra nella tonsorina dall’alba sino all’ora ottava ne fa un luogo d’incontro, di pettegolezzi, di scambio di notizie, un vero variegato salotto di varia umanità, tanto che diversi pittori dal secolo di Augusto in poi ne fanno oggetto dei loro quadri come già avevano fatto gli Alessandrini.
- Per questo loro indefessa attività rimuneratrice sempre più richiesta, diversi tonsores si arricchirono e divennero rispettabili cavalieri o proprietari terrieri come Marziale nei suoi Epigrammi o Giovenale nelle sue Satire spesso riferiscono ironizzando sugli ex-barbieri arricchiti.
- La bottega del tonsor è così organizzata: tutt’intorno alle pareti gira una panca dove siedono i clienti in attesa del loro turno, alle pareti sono appesi degli specchi sui quali i passanti controllano la propria condizione pilifera, al centro uno sgabello su cui siede il cliente da riordinare coperto da una salvietta, grande o piccola, oppure da un camice ( involucrum ).
Attorno si affannano il tonsor e i suoi aiutanti ( circitores ) per tagliare o sistemare i capelli secondo la moda che in genere è quella dettata dall’imperatore in carica. Le acconciature degli imperatori da Traiano in poi, almeno così come risulta dalla monete, fatta eccezione per Nerone che dedicava particolare attenzione alla chioma, in genere seguivano quella dell’imperatore Augusto che non amava perdere troppo tempo ad acconciarsi con capelli troppo lunghi o riccioluti.
( LA ) «Si curatus inaequali tonsore capillos Occurri, rides » | ( IT ) «Se mi è capitato di avere acconciati i capelli a scaletta da un barbiere, tu te la ridi.» |
Per evitare questo rischio i più ricercati preferiscono farsi arricciare i capelli come faceva Adriano e suo figlio Lucio Cesare e il figlio di questi, Lucio Vero, che sono rappresentati nelle loro effigi con capelli inanellati da abili tonsores che si servivano alla bisogna di un ferro ( calamistrum ) scaldato al fuoco.
La moda divenne prevalente tra i giovani e purtroppo anche tra uomini anziani che volevano servirsi dei riccioli per nascondere la pelata ma, come li sferza Marziale, bastava un colpo di vento per far riapparire «.il cranio nudo tutto circondato da filacce di nuvoli ai suoi lati. Ah se tu vedessi la miseria assoluta di una calvizie capelluta!» Non si contano poi le prese in giro dei poeti satirici romani nei confronti di quelli che si facevano tingere i capelli, profumare e che si facevano applicare finti nei ( splenia lunata ).
Tra le cure del barbiere la prima era quella di curare o radere le barbe portate abitualmente dai romani sull’uso greco sino agli ultimi tempi della Repubblica quando già con Scipione l’Emiliano (185 a.C. – 129 a.C.), si preferisce avere il mento rasato.
Come si lavavano le mani i romani?
Come si lavavano i panni: la liscìva, dagli Antichi Romani a oggi Un tempo, i panni venivano lavati a mano con l’uso della liscìva, ovvero di una soluzione composta da cenere e acqua. Sarà per questo che anche i detersivi più moderni oggi contengono la cenere.
Ovviamente non la cenere proveniente dalle sigarette, ma quella che veniva ricavata dalla combustione del legno, che alimentava i camini o le stufe casalinghe. Migliore era il legno, migliore era la cenere, che se di qualità arrivava ad essere fine e bianca. Dalla lascìva cotta con il grasso animale, vennero ricavati poi i primi saponi, che vennero sostituiti solo dall’uso della soda caustica, un composto chimico che divenne a buon mercato solo verso la fine del Settecento.
Anticamente, il lavaggio dei panni veniva disposto ogni due mesi, e dal momento che era particolarmente faticoso, vi erano anche delle donne che, dietro compenso, mettevano le proprie prestazioni appositamente al servizio di questo compito. Tutto iniziava con la raccolta dell’acqua dai pozzi, che venivano posti a bollire sul fuoco.
Una volta che l’acqua raggiungeva i 100 °C, si aggiungeva al fuoco la cenere vegetale e si rimestava ciò che si era venuto a creare, ovvero un liquido grigiastro denominato liscìva. Questo composto era particolarmente grasso, dunque aveva un forte potere pulente, Dopo la produzione della liscìva, iniziava la prima parte della pulitura: sopra la biancheria si disponeva una sorta di telo, che aveva l’obiettivo di fungere da filtro, in quanto la cenere non avrebbe dovuto toccare i panni.
Questo processo veniva fatto sopra un mastello, perché la liscìa veniva infatti travasata più volte per essere più volte versata sui panni con l’ausilio di braccia e mani, ciò che il cestello della lavatrice oggi fa per noi. Dopo l’ultimo travaso, i panni venivano coperti da una serie di assi di legno per evitare che il liquido si raffreddasse.
La biancheria necessitava infatti di rimanere in ammollo per tutta la notte, per poi essere fregati con sapone di Marsiglia e spazzole di saggina, il giorno seguente. Subito dopo, i panni venivano portati al lavatoio comune, dove venivano sciacquati; infine tornavano a casa, dove venivano stesi al sole.
Oggi la liscìva viene considerata un modo ecologico per lavare il bucato, che comporta sì un po’ di fatica, ma anche un bianco brillante e duraturo. Per poter creare la propria liscìa, è necessario avere un pentolone in cui verrà disposta la cenere, già finemente setacciata, che dovrà essere in rapporto 1 a 5, ovvero 1 bicchiere di cenere per 5 litri d’acqua.
Preparazione : Porta a ebollizione a fuoco lento, il composto d’acqua più cenere presente nel recipiente: all’inizio sarà necessario mescolare piuttosto frequentemente. Ci vorranno all’incirca 2 ore, per avere la propria liscìva, che avrà raggiunto il giusto grado di saturazione solo quando, assaggiandola un po’ sulla punta della lingua, avrete sentito che vi pizzicherà appena.
Una volta terminata la cottura, la liscìa necessiterà di almeno un po’ di tempo di riposo e decantazione. Ora toccherà preparare un altro recipiente, contenente alcuni stracci o federe di cotone possibilmente bianche; lo straccio infatti sarà il nostro filtro, dunque non deve scolorire.
- Tendi lo straccio sul recipiente e poi fissalo, magari ai manici, con uno spago oppure un elastico, ma se ne hai abbastanza, basterà un nodo ben stretto.
- Versa il contenuto della pentola sullo straccio.
- Mi raccomando: non mescolare il liquido, è necessario infatti che la parte solida e quella liquida rimangano separate.
Questa operazione può essere ripetuta tutte le volte che lo si desidera, per consentire alla liscìva di diventare quanto più possibile limpida, e quindi di non sporcare i vostri panni, bensì di pulirli. Il panno infatti tratterà le particelle di cenere più grosse e nere, cosicché alla fine rimarrà soltanto un liquido chiaro; il composto così ottenuto veniva denominato ‘cenerone’.
- La parte liquida, è quella che veniva utilizzata per le pulizie, ma non solo del bucato, anche dei piatti, e dei pavimenti.
- Se conservata, in un recipiente ermetico posto in un luogo asciutto, la liscìva rimane attiva per molto tempo e può essere considerata il detersivo ecologico per eccellenza.
- Può essere utilizzata sia pura che diluita con altra acqua, ad esempio sui panni colorati, e inserita anche in lavatrice al posto del detersivo.
La parte più solida, cremosa, possiede un leggero potenziale abrasivo, non va quindi gettata, perché è perfetta per sgrassare lo sporco più ostinato, come ad esempio quello dei fornelli, delle cantine, o anche per combattere le macchie di ruggine o di calcare presenti sulle superfici metalliche.
Che fisico avevano i romani?
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LA VINEA, BASTONE E SIMBOLO DI COMANDO DEL CENTURIONE |
RECLUTAMENTO L’aspirante legionario doveva presentarsi davanti ad una commissione di ufficiali che ne decidevano l’idoneità. Nell’esercito romano i legionari venivano selezionati tra tutti quelli disponibili nel bacino del Mediterraneo. Annualmente ogni legione aveva bisogno di 240 nuove reclute; così per 25 unità legionarie, più altrettante per la marina, più gli ausiliari e la guarnigione di Roma, si ottiene un totale di circa 18.000 uomini necessari a Roma, annualmente, per mantenere il suo esercito.
A volte non era semplice trovare una tale quantità di uomini, e sembra strano visto l’esteso territorio controllato dall’impero, ma i soldati dovevano avere delle qualità: – doveva essere cittadino romano, – doveva saper leggere e scrivere, – doveva avere almeno 17 anni, – doveva godere di buona salute, – doveva avere una costituzione robusta, – doveva avere buona vista e udito, – doveva avere una discreta intelligenza, – altezza minima per i cavalieri e gli uomini delle prime coorti, di m 1,72 (5 piedi e 10 once), e di 1,65 m (5,5 piedi)) per i fanti.
Se non bastavano i volontari, si ricorreva ai coscritti o ai veterani. Sotto Augusto vennero inclusi nell’esercito i barbari e pure gli schiavi. Nelle varie epoche vi furono tre tipi di reclutamento: – locale, dalla città costruita nei pressi del campo in cui servono, – regionale, dalla provincia del campo, – straniero, tutti gli altri. Già da Augusto viene praticato il reclutamento locale, come dimostrano le liste di uomini che indicano come propria patria il campo, “origo castris”, probabilmente concepiti da donne che vivevano nelle canabae, costruzioni civili stabilite presso le fortezze.
- La presenza di una legione in un territorio attirava il commercio e parecchi civili e i figli di un legionario facilmente facevano i legionari per emulare il padre.
- Se la recluta era: – figlio di un notabile poteva accedere da subito al centurionato, – se era un semplice cittadino veniva mandato in una legione, – se era un peregrino veniva mandato negli ausiliari.
DAL RECLUTAMENTO REGIONALE A QUELLO LOCALE A partire dal II secolo di passa da un reclutamento regionale ad uno locale, reclutando i soldati dalle città più vicine alla fortezza, di modo che il sistema diventò più agile, veloce ed economico senza grandi spostamenti.
- La leva, o “dilectus”, è affidata ad un responsabile che occupa un posto elevato nella società; solitamente questo era un compito spettante al governatore della provincia.
- Le nuove reclute devono passare una serie di esami, sia fisici che intellettuali, oltre a veder esaminato il proprio profilo giuridico; ciò mette in mostra, in modo chiaro, la ricerca della qualità che prendeva forma nel consiglio di revisione, la “probatio”.
Durante il I secolo le regioni di origine furono quasi tutte italiane, scemando anche a causa di un rallentamento demografico. Le domande dei volontari erano, per gli italici, soddisfatte quasi interamente dalla Guarnigione di Roma (i Pretoriani). Avanzano invece regioni come: Gallia Narbonese, Macedonia, Africa e Numidia, Tracia, Mesia.
Nel I secolo prevalgono gli stranieri non africani, soprattutto italici e galli, nel III abbiamo una maggioranza di africani, con una aumento anche degli origo castris. Anche nell’esercito di Spagna notiamo un’iniziale presenza di italici e galli sostituiti poi dagli indigeni. LA LEVA La leva, dilectus, è affidata in genere al governatore della provincia.
Le nuove reclute devono passare una serie di esami, fisici, intellettuali e giuridici. – Esame fisico: avere almeno 17 anni, godere di buona salute, costituzione robusta, buona vista e udito, altezza minima per i cavalieri e gli uomini delle prime coorti, di circa 1,72 m, di circa 1,65 m per i fanti.
Esame intellettuale: si deve conoscere il latino, almeno in parte, in quanto lingua del comando, e di saper leggere e scrivere. – Esame giuridico: si chiedeva al giovane quale fosse la sua origine. Se figlio di un notabile poteva accedere da subito al centurionato, se semplice cittadino veniva mandato in una legione, se peregrino veniva mandato negli ausiliari.
Di solito di ingaggiavano reclute di 18-21 anni. La recluta era detta “tiro”, da cui i termini “tirocinio” e “tirocinante”, passava un periodo di prova di almeno 4 mesi (probatio), in cui riceveva l’addestramento militare e veniva tenuto in osservazione.
- Si indagava inoltre sulla moralità delle reclute, per evitare elementi poco raccomandabili, che volessero arruolarsi per sottrarsi a qualche grave condanna, per rientrare nell’esercito dopo esserne stati scacciati con ignominia o per sfuggire a un processo.
- Se tutto andava bene il “tiro” veniva immatricolato: gli veniva messa al collo la piastrina di riconoscimento, ovvero il “signaculum”, una medaglia di piombo sospesa da una cordicella intorno al collo, che dichiarava la sua appartenenza all’esercito, ad un tempo segno di fedeltà al servizio militare e indicazione della sua identità.
Dopodiché giurava sugli Dei e l’imperatore.
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IL GIURAMENTO |
Il Giuramento In età imperiale sul braccio dei miles venivano segnati a fuoco il nome dell’imperatore, il che costituiva anche una prova di coraggio. Assegnato nel reparto, il miles prestava, insieme ai suoi commilitoni, il giuramento di fedeltà, il “sacramentum militiae” di alto valore religioso, giuridico e civico, che lo legava allo stato, al suo generale ed ai suoi compagni d’arme con un vincolo che lo legava fino al congedo.
- In caso contrario, egli avrebbe commesso un’imperdonabile empietà.
- Dopo il giuramento, il soldato veniva addestrato per almeno 4 mesi e poi poteva usare le armi: elmo, scudo, corazza e gladio, fornite dallo stato.
- Il giuramento dei coscritti seguiva quello che gli ufficiali (legati e tribuni militari) ed i sottufficiali (centurioni) prestavano al comandante.
Un soldato di ciascuna legione leggeva a voce alta l’impegno, di restare in servizio fino alla naturale scadenza, e gli altri, chiamati singolarmente per nome, uscivano dai ranghi e pronunciavano la formula di consenso. Un giuramento particolare veniva prestato dal soldato arrivato nell’accampamento, di rispettare alcune norme, come non rubare nulla né entro il campo né fuori e consegnare ai superiori gli eventuali oggetti ritrovati o presi durante il saccheggio di una città nemica conquistata.
Nel periodo post-mariano, quando il servizio militare si protraeva per molti anni, il giuramento soldati valeva per la durata del loro servizio. Con Augusto, il capo supremo dell’esercito divenne il princeps, l’imperatore, e quindi si giurava solo a lui: il “sacramentum militiae” veniva ripetuto ad ogni successore ed annualmente il primo gennaio, o talvolta nell’anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore regnante.
Da Costantino in poi i soldati pronunciavano un giuramento di tipo cristiano. Un giuramento particolare veniva prestato dal soldato appena arrivato nell’accampamento, e riguardava esclusivamente l’impegno a rispettare alcune norme, come non rubare nulla né entro il campo né fuori e consegnare ai superiori gli eventuali oggetti ritrovati o presi durante il saccheggio di una città nemica conquistata.
Nel periodo post-mariano, quando il servizio militare si protraeva per molti anni, i soldati si impegnavano una volta per tutte ed il giuramento restava valido per la durata del loro servizio. Con Augusto, il capo supremo dell’esercito divenne il princeps, l’imperatore, e quindi esclusivamente a lui veniva prestato il sacramentum militiae, che era ripetuto all’atto della proclamazione di ogni successore ed annualmente il primo gennaio, o talvolta nell’anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore regnante.
Con Costantino, adeguandosi ai nuovi orientamenti socio-politici, i soldati pronunciavano un giuramento, diverso da quello fino allora adottato, che conteneva un esplicito riferimento alla religione cristiana. L’ADDESTRAMENTO CONTINUO ” Se avessi avuto simili soldati (come i romani) avrei conquistato il mondo ” (Pirro) Nel I secolo d.c. scrive Flavio Giuseppe sui soldati romani ne La guerra giudaica: “Per essi infatti non è la guerra l’inizio d’esercitarsi alle armi, né soltanto quando c’è bisogno muovono essi le mani tenute inoperose in tempo di pace.
- Bensì, come se fossero nati con le armi addosso, non concedono giammai tregua al tirocinio né stanno ad aspettare le occasioni propizie.
- Presso di loro le esercitazioni non differiscono in nulla da vere mostre di valore ché anzi, ogni soldato giorno per giorno, si allena con tutto l’ardore come in tempo di guerra.
Né errerebbe chi dicesse che le loro esercitazioni sono battaglie incruente e le battaglie sono esercitazioni cruente.” I romani eseguivano effettivamente una exercitatio esasperata, proverbiale al punto da dare il nome stesso all’exercitus, cioè in quelli che si esercitano.
Vegezio, un romano di un IV sec., quando perciò l’impero era già in declino si dichiara preoccupato per il lassismo dell’epoca: “Le reclute, una volta immatricolate, devono poi essere addestrate con quotidiani esercizi alle armi il cui uso ai nostri giorni è stato trascurato con il pretesto del lungo periodo di pace.
Com’è possibile che qualcuno possa insegnare se prima non avrà egli stesso imparato? Bisogna certamente ripristinare l’antica consuetudine apprendendola dagli storici e dai libri, tenendo conto del fatto che essi ci hanno tramandato soltanto gli eventi e le imprese delle guerre, mentre tralasciano argomenti intorno ai quali oggi si svolge la nostra ricerca, come se fossero già noti”, L’esercizio permetteva al soldato romano di essere superiore al suo nemico da un punto di vista fisico, di carattere e morale; la disciplina rendeva l’esercito una macchina da guerra. L’ozio non esisteva, quando non combattevano e non si esercitavano, i legionari andavano a caccia e a pesca, tagliavano alberi e muovevano pietre, in più costruivano accampamenti, fossati, strade, ponti, sbarramenti, edifici pubblici come le terme, il centro di comando, i porticati ecc.
- I soldati sapevano esattamente come muoversi, già Giulio Cesare affermò che lui non aveva quasi mai bisogno di impartire ordini, se non in battaglia, perchè i suoi ufficiali sapevano già cosa fare.
- Ma lo sapevano anche i soldati, dal modo di tenere lo scudo, alto in modo preciso che non intralciasse la vista e che potesse essere alzato o abbassato con un movimento preciso, per proteggersi o per colpire la gola del nemico.
I legionari di Gaio Mario vennero chiamati, anzi per primi si definirono essi stessi, i “muli di Mario”, tanto era serrato il loro addestramento, sappiamo pure che Giulio Cesare, che non era certo da meno dello zio, faceva svegliare i suoi miles nel cuore della notte e li faceva marciare alla luce della luna perchè fossero pronti a tutti. Il legionario era abituato anche a tenere il piede sinistro allineato appena dietro allo scudo, si che con un colpo netto poteva abbassarlo includendo l’estremità dietro allo scudo, senza colpirsi il piede che era però posto un po’ all’infuori del corpo per maggiore solidità.
- La gamba destra era invece poco più indietro, pronta a flettersi per indietreggiare o per ottenere maggiore stabilità, oppure a stendersi per protrarsi in avanti.
- Di solito ci si protraeva in avanti colla gamba destra e col braccio destro per colpire il nemico, dopodiché si indietreggiava di solito per coprirsi e preparare un nuovo colpo.
Era addestrato alla testuggine, soprattutto sotto le mura di una città nemica, creando con un solo gesto una scatola di metallo perfettamente coincidente tra scudi, ma pure a cambiare assetto in modo rapido, e per questo esistevano le parole urlate dagli ufficiali.
- Le Armi Erano addestrati anche ad un uso particolare del gladio, una spada abbastanza corta ma maneggevolissima che poteva agevolmente insinuarsi tra gli scudi e colpire in modo preciso.
- I romani non colpivano a casaccio ma miravano ai punti vitali e più dolorosi per eliminare e o sconcertare l’avversario, soprattutto alla pancia e alla gola.
I legionari imparavano la scherma contro dei pali di legno infissi al suolo usati come nemici. L’addestramento si faceva sia al mattino che alla sera, imparando a sferrare i colpi mirati contro il viso o il corpo dell’avversario alla massima velocità.
Per l’offesa si utilizzavano delle clave di legno, mentre per la difesa usavano scudi di vimini. Entrambi pesavano molto di più delle spade e degli scudi normali. Con la clava ci si esercitava a colpire il nemico di punta, poichè colpire di taglio era raramente mortale, dovendo perforare l’armatura nemica.
Altri lanciavano il giavellotto, le frecce e i sassi con le fionde. L’addestramento romano era molto duro, per gli esercizi e per la disciplina, nulla era dovuto al caso, ogni movimento doveva essere eseguito con grande precisione. “Etenim in certamine bellorum exercitata paucitas ad uicitoriam promptior est, rudis et indocta multitudo exposita semper ad caedem” “un esercito ben addestrato e pronto alla battaglia aveva più speranze di vittoria di una moltitudine di combattenti male addestrati”.
(Vegezio 1,1, Epitoma rei militaris) Il Silenzio In battaglia i romani tacevano, l’urlo di battaglia, deciso di volta in volta dal generale in carica, si urlava solo all’inizio del combattimento, in genere per tre volte, dopodiché regnava il silenzio assoluto per poter agevolmente udire gli ordini dei superiori.
Poichè però spesso erano i nemici a fare chiasso, esistevano le trombe che a seconda degli squilli diversificati nel numero e nella durata (come brevi o lunghi) esprimevano un ordine che i legionari riconoscevano perfettamente. Un altro modo di dare ordini era la posizione del vessillo della legione Un altro lavoro del miles romano era la cura dell’abbigliamento militare: la parte metallica, elmo compreso, doveva essere ben pulita e oliata in modo non solo di non arrugginirsi ma di far scivolare le armi nemiche. Le Marce Era fondamentale nell’addestramento il passo di marcia, fondamentale per mantenere l’ordine necessario in battaglia e negli spostamenti; un esercito diviso e disordinato era a rischio. Al passo militare le reclute percorrevano una distanza di circa 30 km in 5 ore nel periodo estivo, mentre a passo pieno, oltre 5 km orari, la distanza percorsa era di 35 km circa, un vero record.
C’era pure l’esercizio della corsa per avanzare con maggior impeto contro il nemico al momento della carica. I soldati imparavano anche a nuotare in quanto non sempre era possibile attraversare i fiumi mediante dei ponti, sia nel caso di una fuga repentina dal nemico, che per un attacco improvviso. Quest’attività fisica era svolta sia senza, sia con tutto l’equipaggiamento, a volte con pesi supplementari applicati fino ad arrivare a trasportare 30 kg ciascuno.
La Superiorità Romana La superiorità romana nelle imprese belliche era dovuta a vari fattori: la perfetta organizzazione, il continuo addestramento, il cambiamento innovativo dei mezzi e delle armi, o perchè osservati nel nemico in guerra, o perchè inventati exnovo, la diversità dei luoghi o del nemico che portavano ad apprendere o inventare strategie sempre nuove.
- Il tutto condotto con estrema consapevolezza, razionalità e creatività, e nessun popolo era lontanamente simile a questo.
- Vegezio:” Per la fanteria si costruivano dei capannoni nei quali, quando il clima era turbato da venti e tempeste, l’esercito era addestrato nell’arte delle armi stando al coperto “.
Per cui ai militi venivano caricati pesi sulle spalle mentre combattevano per abituarsi alle armature pesanti, e nei capannoni si creavano cumuli di roccia e terra per abituarli ai terreni dissestati. In inverno allestivano capannoni per esercitarsi al coperto, ma a volte dovevano uscirne fuori per abituarsi sotto la pioggia o la neve.
- Vegezio – Epitoma rei militaris, “Cavalli di legno erano predisposti in inverno al coperto, d’estate nel castrum.
- I giovani dovevano montare inizialmente senza nessuna armatura, fino a quando non avevano sufficiente esperienza, in seguito armati.
- Ed è così grande la cura che ci mettono che questi non solo imparavano a salire e scendere da destra ma anche da sinistra, tenendo in mano persino le spade sguainate e le lance.
Si dedicavano a questo esercizio in modo assiduo, poiché nel tumulto della battaglia potevano montare a cavallo senza indugio, visto che si erano esercitati tanto bene nei momenti di tregua.” E ancora Vegezio: « Gli antichi, come si trova scritto nei libri, addestravano in questo modo le reclute. Preparavano scudi di vimini arrotondati come canestri, così che il graticcio pesasse il doppio rispetto agli scudi normali. Ugualmente consegnavano alle reclute bastoni di legno, che pesassero sempre il doppio del peso normale, al posto delle spade.
Così si esercitavano non solo al mattino, ma anche nel pomeriggio, con i pali. L’esercitazione con i pali è molto utile non solo ai soldati ma anche ai gladiatori. Né il circo ne i campi di battaglia hanno mai accettato qualcuno come invincibile nelle armi, se non chi si era allenato diligentemente nell’esercizio del palo.
Ogni palo veniva piantato al suolo dalle singole reclute, in modo tale che non potessero oscillare e che uscissero dal suolo per sei piedi. La recluta si esercitava contro quel palo come fosse il nemico, con il bastone e il graticcio al posto della spada e dello scudo, ora in modo da indirizzare i colpi come contro il capo o il viso del nemico, o da spingerlo ai fianchi, cercando di ferirgli braccia e gambe, retrocedeva, avanzava, spingeva, aggrediva con tutta la forza possibile il palo, utilizzando ogni tecnica di combattimento, come se fosse un vero nemico.
- In questo tipo di esercitazione si usava prudenza in modo tale che la recluta colpisse senza esporre nessuna parte alle ferite.
- » I Romani ebbero l’esercito più forte del mondo, il più organizzato e il meglio addestrato.
- Si diceva all’epoca che un soldato romano valeva quanto 10 soldati barbari, e non doveva essere troppo lontano dal vero perchè spessissimo i romani batterono con successo eserciti molto più ampi del loro.
I romani non avevano un fisico particolarmente prestante, erano piuttosto bassi e nemmeno feroci come i barbari che non solo spesso non facevano prigionieri, ma usavano far morire i nemici catturati attraverso torture e supplizi atroci, il che non poteva che terrorizzare i soldati romani, ma questo terrore l’avevano anche i barbari nei confronti di altri barbari, che pure erano coraggiosissimi e pronti a morire. LA PALESTRA I bambini romani sentivano continuamente in famiglia parlare delle gesta del padre, degli zii o dei nonni, se non degli avi, e i giochi preferenziali con gli altri bambini erano di finti combattimenti, finchè iniziavano ad andare in palestra all’età di 12 anni, tassativa per tutti.
- Qui facevano ginnastica soprattutto correndo e maneggiando armi di legno.
- Al contrario dei Greci che vedevano nella palestra una cura del corpo per trarne armonia e bellezza, corpo che veniva esibito nudo in palestra, i Romani vi vedevano solo la preparazione alla guerra.
- Bisognava allenarsi per sopportare il peso dell’armatura e delle armi, per correre velocemente e rinforzare le varie parti del corpo.
In genere era il padre ad accompagnare il figlio in palestra, qui c’erano schiavi che si occupavano dell’addestramento del bambino, ma il primo ad avviarlo e ad assisterlo era il padre, e in mancanza di questo uno zio o un parente. Le palestre più antiche furono i campus, dove giovani e ragazzini andavano ad allenarsi, che restarono comunque palestre anche quando sorsero quelle delle terme, belle e attrezzatissime. In palestra avveniva già la prolusio, termine tipico della gladiatura per indicare una competizione incruenta, cioè un combattimento reale che adottava armi hebetes, ossia senza filo e senza punta. in genere di legno, con apparati difensori per la testa, per gli stinchi e persino per le braccia, alla maniera gladiatoria.
Ogni giorno il bravo romano andava ad allenarsi in palestra coi suoi compagni, almeno fino all’età di 16 anni, o a 17 o 18 anni. In questa età il giovane, specie se di buona famiglia, si iscriveva finalmente nell’esercito, cominciando la vita degli accampamenti, delle marce e dell’addestramento militare.
Se c’era una guerra in corso andava alla guerra, se c’era una provincia scomoda con rischi e rivolte andava lì. Il sogno di ogni bambino era di combattere e coprirsi di gloria. LA VITA MILITARE Tutti gli uomini liberi della penisola italica erano chiamati alle armi. Il cittadino romano fin dall’infanzia era educato militarmente; studiava arte militare e trascorreva 10 anni di formazione negli accampamenti e sui campi di battaglia. Si diventava valorosi per emulazione, per avere la stima dei compagni e dei civili.
- Gli accampamenti avevano una vita molto attiva, con una disciplina e un’organizzazione assoluta, dove nulla era lasciato al caso.
- Qui i militari imparavano di tutto e mettevano in luce le proprie capacità di cui i centurioni e soprattutto i generali tenevano debitamente conto, avere uno specialista significava ottenere un risultato migliore e in minor tempo.
I Romani avevano la meritocrazia nell’esercito e la carriera, anche per i patrizi partiva dal basso, semmai dalla cavalleria, ma con una scalata tutta da fare. Per mettere in evidenza queste capacità si facevano continuamente gare tra reparti. Il singolo soldato, oppure la centuria, la coorte o la legione che arrivava prima al bersaglio, che saliva per prima il vallo, che scalava per prima il muro o che termina per prima un lavoro, era premiata con phalerae, armillae e corone di diverso tipo, secondo una procedura stabilita. LE PUNIZIONI Tra le punizioni più pesanti v’era la bastonatura, che Polibio descrive effettuata “con bastoni e con sassi e il più delle volte lo ammazzano proprio lì nell’accampamento” o con la decapitazione se si tradiva o si fuggiva davanti al nemico, per la diserzione c’era il taglio della mano destra che era peggio della morte. Esistevano poi diversi tipi di punizioni meno gravi ma ignominiose e degradanti: corvées, ritiro delle armi, esposizione davanti alla tenda del comandante in tunica, a piedi nudi o con i ceppi ai piedi. Una delle sanzioni meno gravi era quella che prevedeva la sospensione, per un certo periodo, dal soldo e dall’eventuale bottino spettante, sanzione che poteva essere applicata sia individualmente che all’intera legione, che a reparti di essa.
A volte, il singolo o l’intero reparto erano puniti con la sostituzione della razione di frumento con una di orzo, o venivano obbligati ad accamparsi fuori della palizzata del campo. Il congedo con ignominia consisteva, invece, nell’espulsione dall’esercito con una nota infamante. Spettava solo al comandante comminare questa punizione, che era tra le più gravi e poteva colpire sia i soldati semplici che gli ufficiali, sia i singoli, che interi reparti, macchiatisi di codardia, diserzione, ribellione e così via.
La pena di morte individuale o per decimazione veniva comminata per i reati di diserzione e di insubordinazione grave, eseguita con la decapitazione dopo fustigazione. Quando un intero reparto si rendeva punibile con la pena di morte, si ricorreva alla decimazione: metodo di punizione « utile e al tempo stesso terribile » lo definisce Polibio, che descrive le particolarità dell’esecuzione ed afferma che « questa pratica viene adottata come la più efficace al fine di incutere spavento e di far riparare le gravi mancanze compiute ».
- I superstiti, dal canto loro, venivano nutriti con orzo invece che frumento e fatti accampare fuori dalla palizzata dell’accampamento (vallum), senza protezione.
- LA PRIGIONIA La prigionia per un romano poteva essere peggiore della morte, se si cadeva in mano ad un popolo barbaro o particolarmente crudele.
Ma oltre alla durezza ed ai patimenti fisici e morali connessi allo stato di privazione della libertà, il prigioniero subiva una grave menomazione come cittadino romano: infatti, nello stesso momento in cui si era fatti prigionieri, si diventava schiavi del nemico perdendo la cittadinanza romana e i diritti civili.
Ne conseguiva la nullità del matrimonio eventualmente contratto e la perdita della patria potestà sui figli: e solo quando, finita la prigionia, rientrava nel territorio sottoposto a Roma, riacquistava il suo stato di civis e i diritti civili. In genere la prigionia aveva breve durata, in quanto spesso era lo stato romano che pagava il riscatto o scambiava i suoi prigionieri con quelli del nemico.
Oppure erano i parenti a versare il denaro per la liberazione del congiunto. Esisteva anche una speculazione basata sul riscatto dei prigionieri di guerra, per cui privati cittadini pagavano tenendo il soldato liberato a lavorare per ripagare con gli interessi la somma anticipata. LE CAPACITA’ DEL MILITE I militari romani imparavano a fare di tutto, anzitutto a elevare rapidamente un accampamento piantando in terra i pali, erigendo torrette di guardia, misurando gli spazi per le tende e il resto con una precisione impressionante, piantando le tende a tempo record, con le corde delle tende che dovevano intersecarsi tra loro in modo che un nemico al buio vi sarebbe inciampato, oppure scavando ruscelli per avere l’acqua dentro il campo, scavando trincee intorno all’accampamento e magari piantando oltre le trincee pali appuntiti.
Imparavano anche a mettere su a tempo di record la cucina da campo, l’ara, e le latrine, a cucinare, a riempire e a svuotare i carri rapidamente, a smontare l’accampamento a tempo record, a marciare in fretta o di corsa coi pesi addosso, a costruire strade, ponti, restaurare costruzioni, costruire mura per il castrum fisso, o valli per difendersi dal nemico, o deviare fiumi, tagliare boschi e lavorare il legno, bonificare terre scavando ruscelli, o costruendo opere pubbliche, dai bagni alle terme, perchè molti castra divennero città.
Questo era il duro addestramento e l’abitudine al sacrificio, che portava il soldato romano a lunghe marce, trasportando il proprio bagaglio e la propria armatura (oltre 30 kg totali) ed alla sera piantava la tenda e innalzava la palizzata per ricominciare il giorno dopo, almeno quando doveva raggiungere terre lontane in territori nemici.
Contemporaneamente a tutto ciò dovevano esercitarsi nella guerra. Vegezio, nelle esercitazioni dei legionari, raccomanda che debbano: ” occupare qualche luogo e stringersi assieme con gli scudi per rimanere saldi ai loro posti e respingere l’assalto dei loro commilitoni.
Addestrati e istruiti in tal modo, i soldati dei ‘numerii’ siano essi legionari, ausiliari o cavalieri, pur provenendo da luoghi diversi, si riuniranno assieme per una azione. Di necessità desidereranno più il combattimento che l’ozio, gareggiando in coraggio”. IL LEGIONARIO « Mentre essi sono ancora sparsi nelle proprie guarnigioni, devono essere costretti dai tribuni, dai vicari e anche dagli ufficiali con enorme rigore a mantenere la disciplina più severa, a non osservare null’altro che ubbidienza e rispetto delle regole, a fare frequentemente la così detta manovra di campo, a sottoporsi all’ispezione delle armi, a non assentarsi mai con nessun permesso, a non smettere di osservare i comandi e di rispettare le insegne,
» (Vegezio, Epitoma rei militaris, III, 4, 3) L’addestramento iniziava con una serie di marce massacranti: un legionario doveva poter percorrere 30 km in 5 ore al cosiddetto “passo militare” e 36 km nello stesso tempo al “passo veloce”, portando con sè 20 kg di equipaggiamento completo (viveri per 15 giorni, indumenti, utensili, attrezzi ed effetti personali) e l’armamento individuale (armi e corazza, altri 15 kg). L’addestramento al combattimento iniziava non appena la recluta aveva raggiunto un sufficiente stato di forma fisica. Una serie di pali di legno alti quanto un uomo venivano piantati nel campo di addestramento e i soldati si esercitavano a colpirli con un gladio di legno (“rudis”) e a proteggersi con uno scudo di vimini che pesavano entrambi il doppio degli originali.
- Si imparava a colpire con grande velocità, di punta, tenendo la spada nascosta dietro lo scudo, penetrando di scatto nella guardia dell’avversario che aveva spade lunghe e più lente.
- I bersagli principali erano l’addome, le parti basse e le gambe dell’avversario: veniva insegnato a non colpire di taglio o con larghi fendenti, come spesso facevano i barbari, per evitare di scoprire il fianco e il braccio destro.
Anche lo scudo veniva usato come arma, per colpire l’avversario al volto. Altra fase importante dell’addestramento era il lancio del giavellotto pesante (il pilum). Anche qui gli aspiranti legionari si esercitavano a lanciarne uno di legno pesante il doppio di quello d’ordinanza.
Il legionario veniva addestrato duramente al combattimento con qualsiasi tipo di arma e per fronteggiare qualunque evenienza. Doveva essere un abile nuotatore, saper montare a cavallo, tirare con l’arco e con la fionda, lottare a mani nude e con pietre o bastoni. Le reclute venivano addestrate all’arte della scherma (detta “armatura”) da istruttori specializzati.
Al termine del periodo di addestramento la recluta pronunciava in un’apposita cerimonia solenne il “sacramentum”, il giuramento di fedeltà all’Imperatore, al cospetto dell’aquila della Legione. Diventava così un legionario (miles) e veniva registrato con un marchio indelebile sul braccio ricevendo la prima assegnazione ad un reparto della legione.
- « I nemici non possono coglierli di sorpresa.
- Infatti, quando entrano in territorio nemico non vengono a battaglia prima di aver costruito un accampamento fortificato.
- L’accampamento non lo costruiscono dove capita, né su terreno non pianeggiante, né tutti vi lavorano, né senza un’organizzazione prestabilita; se il terreno è disuguale viene livellato.
L’accampamento viene poi costruito a forma di quadrato. L’esercito ha al seguito una grande quantità di fabbri e arnesi per la sua costruzione. » (Giuseppe Flavio, guerra giudaica) Hippica Gymnasia – esercitazione di cavalleria Riguardava solo la cavalleria ed era un gioco tra due squadre che dovevano colpirsi alternativamente coi giavellotti e con una serie di manovre geometriche di avvicinamento ed allontanamento dal bersaglio, il tutto a cavallo, in un esercizio di alta scuola, un po’ come quella che fanno i carabinieri nelle parate, solo che gli equites romani li facevano abitualmente.
- Naturalmente armi e armamenti erano adattati per rendere incruenta la competizione.
- Interessante che l’elmo dei cavalieri era una piastra di metallo con sagoma facciale completamente celata, lasciando lo spazio esclusivamente per gli occhi, un po’ come la maschera d’argento del gladiatore nel film omonimo “Il Gladiatore”.
Questa però era in bronzo e dello stesso metallo erano i parastinchi, i bracciali, corpetto e scudo. Ma c’erano pure le protezioni metalliche per i cavalli, con piastre sagomate e griglie oculari per la protezione del muso. L’Hippica Gymnasia aveva le regole della cavalleria leggera romana.
Non lo scontro frontale ma manovre rapide di aggiramento, avvicinamento e allontanamento, ponendosi fuori portata di armi da getto e altre armi corte di fanteria, finalizzato a un lancio di media gittata di grande precisione, di giavellotti leggeri. Sembra che i giavellotti impiegati fossero in legno senza punta metallica, per i cavalli oltre che gli equites.
Le Hoplomacha Gymnasia erano effettuate di volta in volta da piccoli contingenti, da 20 o al massimo 50 unità contrapposte tra loro. IL PRESTIGIO Un romano che volesse essere rispettato dai suoi simili doveva aver assolto il suo debito con la patria battendosi in guerra. Lo doveva anzitutto a Roma, poi alla sua familia di origine, che doveva non solo non deludere ma glorificare aumentandone il prestigio, non ultima la sua carriera. Nessun romano poteva sperare in una carriera pubblica se non aveva militato e non si era mostrato brillante in battaglia.
- Il fatto che il console era sia la massima autorità civile che quella militare la dice lunga.
- Se poi le guerre erano lontane ci si imbarcava per andare a combattere, o ci si recava sui posti di frontiera a sedare scaramucce, o a combattere predoni e pirati.
- Solo chi aveva combattuto con onore poteva contare sui voti dell’elettorato, sulla stima degli amici, sui prestiti dei creditori, sul favore delle donne e su un’assunzione da parte dello stato o del municipio per intraprendere una carriera politica.
Se giungeva in città uno straniero tutti sapevano già se e come aveva combattuto e il modo in cui veniva accolto dipendeva anzitutto da questo. Le Forche Gaudine A Roma, alla notizia del disastro, si abbandonò l’idea di una nuova leva e si ebbero spontanee manifestazioni di lutto: furono chiuse botteghe e sospese le attività del Foro.
- I senatori tolsero il laticlavio e gli anelli d’oro.
- Addirittura ci furono proposte di non accogliere gli sconfitti in città.
- Questo non accadde ma i soldati, gli ufficiali e i consoli si chiusero in casa.
- A Roma c’era poi il giudizio delle matrone che pesava più di un maglio.
- Quando i romani, sconfitti dai sanniti, dovettero passare sotto le forche gaudine, una volta tornati a Roma trovarono le loro donne in lutto, perchè si consideravano vedove dei mariti attuali, uomini senza onore che si erano dovuti piegare nudi allo schermo del nemico.
I reduci non uscirono più di casa perchè le donne li avrebbero derisi e disprezzati pubblicamente, e le loro mogli portarono il lutto per oltre tre anni. Non a caso il padre del capo dei Sanniti aveva dapprima proposto al figlio: « Conservate ora coloro che avete inaspriti col disonore: il popolo romano non è un popolo che si rassegni ad essere vinto; rimarrà sempre viva in lui l’onta che le condizioni attuali gli hanno fatto subire, e non si darà pace se non dopo averne fatto pagare il fio ad usura » Roma infatti non dimenticò mai i sanniti, che pagarono duramente: – Ponzio re dei Sanniti, il vincitore delle Forche Gaudine venne decapitato nel 290 a.c. PAGA E PREMI Lo stato corrispondeva ai propri soldati un’indennità annua (quadrimestrale con Augusto), dalla quale venivano detratte le spese relative alla fornitura del vestiario, delle armi e dei viveri, che incidevano mediamente per circa un terzo dell’intero stipendium.
Dal diritto internazionale romano era previsto il diritto di saccheggio, che aveva il suo fondamento nella concezione che i beni e le persone dei vinti diventassero proprietà del vincitore. Il bottino era tuttavia proprietà dello stato ed i soldati avevano l’obbligo, per giuramento, di consegnare tutto: beni, persone ed animali.
Prima di versarlo all’erario, i generali avevano però il diritto di trattenerne una parte che essi, dopo il combattimento o in occasione del trionfo, distribuivano parzialmente ai propri soldati che comunque non ne avevano alcun diritto. Il donativo era, invece, un’elargizione straordinaria in denaro, concessa ai soldati per esempio dopo una campagna vittoriosa.
Acquistò un’importanza rilevante dopo la riforma di Mario, con l’arruolamento di uomini privi di beni ma soprattutto nelle guerre civili, durante le quali, sul finire della repubblica, i generali ed i capi delle varie fazioni attiravano i soldati con elargizioni straordinarie, pena la rivolta se non venivano ottemperate.
- Numerose e varie erano le ricompense, che potevano consistere in vantaggi materiali, quali la doppia razione di viveri o il doppio stipendio oppure essere puramente onorifiche, ad esempio l’elogio pubblico del generale.
- Nella maggior parte dei casi si trattava però di una onorificenza, solo raramente accordata ad intere unità ma più frequentemente ai singoli, che per le summenzionate questioni di prestigio, le tenevano in grandissima considerazione, esponendole negli atrii delle proprie case e mettendole ben in vista durante i cortei trionfali o in particolari occasioni celebrative.
L’importanza della decorazione era proporzionata all’atto di valore compiuto: così, a chi in battaglia aveva ucciso un nemico veniva concessa una lancia senza cuspide (hasta pura), mentre una particolare corona, da metà del II secolo a.c. in oro, era data a chi, nell’assedio di una città o di una fortezza nemica, aveva dato per primo la scalata alle mura.
Molto ambite erano anche quelle decorazioni che potevano essere messe in mostra come un braccialetto di argento od oro (armilla), una collana di bronzo (torquis), e due piccoli corni di metallo (cornicula) che si appendevano alla parte anteriore dell’elmo. Da soldati semplici, per passare a quello di centurione primipilo, occorrevano almeno 14-15 anni: insieme ad una serie di privilegi, con uno stipendio superiore di 60-70 volte a quello ricevuto da tiro.
Carriere più rapide si potevano però attuare per particolari atti di valore o notevoli capacità personali. Vi era un altro modo di ricompensare i buoni soldati: la concessione dell’esonero dai servizi più gravosi, da quello di prendere parte alla costruzione dell’accampamento, a quello di provvedere all’approvigionamento, al servizio di guardia, alla manutenzione ed alla pulizia del campo. Secondo la tradizione fu Romolo a creare, sull’esempio della falange greca, la legione romana. Egli iniziò a dividere la popolazione adatta alle armi, in Legioni formate da 3.000 fanti e 300 cavalieri, pertanto 3.000 fanti (pedites) e 300 cavalieri (equites) erano arruolati dalle tre tribù che formavano la prima popolazione di Roma: i Tities, i Ramnes ed i Luceres.
In epoca regia era formata da cittadini compresi tra i 17 ed i 46 anni, in grado di potersi permettere il costo dell’armamento. La legione si disponeva su tre file, a falange, con la cavalleria ai lati. Ogni fila di 1.000 armati era comandata da un tribuni militum, mentre gli squadroni di cavalleria erano alle dipendenze dei tribuni celerum, mentre il Rex assumeva il comando dell’intero esercito che poi scioglieva al termine della campagna dell’anno.
La gran massa dei fanti consisteva probabilmente di pilumni (lanciatori di pilum), con un numero più piccolo a servire forse come arquites (arcieri). La cavalleria era di molto inferiore in numero e consisteva probabilmente unicamente dei cittadini più ricchi della città.
- L’esercito conteneva anche i primi carri.
- Il primo esercito romano, quello di epoca romulea, era costituito da fanti che avevano preso il modo di combattere e l’armamento dalla civiltà villanoviana della vicina Etruria.
- I guerrieri combattevano prevalentemente a piedi con lance, giavellotti, spade in bronzo, ed in rari casi in ferro, pugnali ed asce, con una piccola protezione rettangolare sul petto, mentre solo i più ricchi potevano permettersi elmo e corazza e scudi rotondi.
Secondo Tito Livio attorno alla fine del V sec.a.c. Romolo introdusse gli scudi di tipo sabino, modificando le precedenti armature, e lo stesso Romolo, quando la città di Roma si ingrandì e si unirono i Sabini, decise di raddoppiare le sue truppe in: 6000 fanti e 600 cavalieri. SERVIO TULLIO Livio narra che Tullio riformò l’esercito in base al censimento da lui ordinato. A qualsiasi livello, il servizio militare, a quell’epoca, era considerato un dovere civico e un modo per ottenere un avanzamento di status all’interno della società.
- Servio Tullio fu ritenuto autore della famosa Riforma Centuriata.
- Con questa riforma ricchezza, peso politico e servizio militare erano strettamente collegati; tutti i cittadini, infatti, in base al censo, furono divisi in sei classi ognuna delle quali avrebbe dovuto fornire centurie.
- Approfondimento: SERVIO TULLIO FURIO CAMILLO Nel corso del 407 a.c., quando l’esercito romano fu diviso in tre parti e mandato a saccheggiare il territorio dei nemici sotto il comando di tre dei quattro Tribuni militari.
Così Lucio Valerio Potito si diresse su Anzio, Gneo Cornelio Cosso su Ecetra e Gneo Fabio Ambusto attaccò e conquistò Anxur lasciando la preda ai soldati di tutti e tre gli eserciti. fu istituito lo stipendio per i soldati, su indicazione dello stesso Furio Camillo.
« I patrizi poi aggiunsero un dono quanto mai opportuno per la plebe: il senato, senza che mai prima plebe e tribuni via avessero fatto menzione, decretò che i soldati ricevessero uno stipendio tratto dalle casse dello Stato. Fino a quel momento ciascuno adempiva al servizio militare a proprie spese.
A quanto risulta, nessun provvedimento fu accolto con tanta gioia dalla plebe. » (Tito Livio, Ab Urbe condita) Il vantaggio immediato fu che venne approvata una legge che dichiarava guerra a Veio e i nuovi Tribuni con potestà militare vi condussero un esercito in massima parte formato da volontari.
- La leva del 403 a.c.
- Fu la prima a essere richiesta per una campagna che durasse più di una sola stagionee da questo momento in poi tale pratica divenne gradualmente più comune, se non proprio abituale.
- In epoca repubblicana le guerre sulla penisola italica si combattevano ancora durante la bella stagione, con l’inverno le ostilità erano sospese e i soldati tornavano a casa.
Si riprendeva nella primavera successiva o anche più in là; erano sconosciute le tecniche del lungo assedio, per questo Veio e Roma, distanti tra loro circa 20 km, erano state in guerra senza un risultato conclusivo per quasi cento anni. Quando nel 406 a.c. iniziò quella che doveva essere l’ultima guerra tra Veio e Roma, era chiaro ad entrambi i contendenti che la posta era la supremazia sul Lazio. Tito Livio narra che la guerra sarebbe finita solo con la distruzione di una delle due rivali, e i Romani capirono che era inutile assediare una città ben fortificata solo per qualche mese e poi lasciare il campo delle operazioni con l’inizio della brutta stagione, consentendo all’avversario di riprendersi.
- Ovvero lo capì Furio Camillo che conduceva quella guerra e e fece cambiare sistema cingendo d’assedio Veio, senza mollare la faccenda d’inverno.
- Era una cosa mai accaduta a Roma, perchè i soldati erano soprattutto contadini che lasciavano le proprie terre, per farvi ritorno a operazioni concluse.
- I ricchi avevano schiavi e servi per i loro interessi, ma per i coltivatori era una tragedia.
Così Marco Furio Camillo nel 405 a.c. introdusse in qualità di Console la paga per il soldato ed il diritto ad una parte di bottino in relazione al grado, e durante la guerra con Veio Roma sperimentò nuove strategie belliche, che erano in uso presso i Greci, ma sconosciute dai popoli italici.
- Poichè Furio Camillo istituì per i soldati una paga e parte del bottino, tutti volevano partecipare al saccheggio lasciando sguarnito l’accampamento col rischio che venusse conquistato dall’avversario.
- Allora Furio Camillo stabilì che molti soldati restassero a guardia dell’accampamento e che il bottino, portato al comandante, fosse distribuito in tre parti: una per l’erario, una per gli Dei e una da dividere tra i soldati.
Tutti, nella misura prestabilita, partecipavano alla divisione, anche i feriti, le truppe di riserve e quelle rimaste di guardia all’accampamento. Così non c’era invidia tra i militari, l’accampamento era sempre difeso e spesso da esso uscivano le truppe fresche per nuove sortite.
Erano idee semplici, ma erano solo i romani ad averle e applicarle e questo fece la differenza. Nel periodo in cui Roma, per la formazione del suo esercito, poté contare sui cives romani appartenenti ai ceti alti di condizione e di reddito, il problema dell’addestramento militare non si pose. I cittadini infatti, fino alla tarda repubblica, ricevevano un’educazione esclusivamente privata, che comprendeva attività atletiche con fini militari.
Per praticare questi esercizi, i giovani romani si recavano al Campo Marzio, sulle rive del Tevere, nelle cui acque si immergevano dopo le fatiche delle prove alle quali usualmente si sottoponevano: corsa, lancio del giavellotto, maneggio delle armi, equitazione, pugilato e scherma.
Ancora nell’ultimo secolo della repubblica, quando il servizio militare aveva cessato di fatto di essere obbligatorio per il cittadino comune, l’allenamento fisico restò un obbligo sociale per i giovani dei ceti superiori i quali, in ogni caso, prima di iniziare la carriera delle magistrature, dovevano aver coperto i gradi dell’esercito.
Approfondimento: FURIO CAMILLO SCIPIONE L’AFRICANO Nel 216 a.c., all’età di 19 anni, fu tra i superstiti della disastrosa battaglia di Canne, dove, come narra Livio ricopriva la carica di tribuno militare. In questo ruolo, dopo la sconfitta, guidò e condusse in salvo i pochi e sbandati superstiti delle legioni romane, con i cartaginesi che perlustravano il territorio per far strage dei sopravvissuti, tanto più che il campo di Annibale distava appena 4 miglia. Li fece giungere sani e salvi a Canosa dove i soldati lo ringraziarono commossi, compresi quelli che volevano fuggire e che ritenevano impossibile la salvezza. E qui inizia la stupenda tattica di Scipione, uno stratega militare all’altezza di Giulio Cesare, il quale commiserava l’esercito il cui comandante usasse le armi anzichè il cervello.
Scipione riteneva importante studiare la tattica del nemico per poterlo prevedere e scoprire i suoi punti fragili, così si fece raccontare dai superstiti tutti i particolari della battaglia. Poi, sapendo della grande superiorità numerica degli avversari, studiò un piano: Siface e Asdrubale si erano accampati su due alture vicine, ma i loro accampamenti in legno e giunco erano addossati gli uni agli altri, non studiati al centimetro come quelli romani.
Allora Scipione mandò una serie di ambasciatori per trattare la pace, inserendovi soldati esperti nel rilevare tutte le informazioni del luogo. Poi in primavera interruppe i negoziati e fece partire le sue navi apparentemente in direzione Utica, come dovesse assalire la città dal mare.
- Di notte invece si recò all’accampamento di Siface e, dopo aver bloccato ogni via di fuga, appiccò un incendio che, come previsto, si estese in poco tempo a tutto l’accampamento.
- I cartaginesi dell’accampamento di Asdrubale, credendo accidentale l’incendio, corsero in aiuto e vennero annientati.
- Livio racconta che di fronte al pericolo di defezione dopo la sconfitta di Canne, Publio Scipione fu l’unico dei capi militari a mostrare decisione e fermezza, si oppose così alla richiesta di riunire un consiglio per deliberare sulla situazione, perchè non si doveva far altro che riorganizzare l’esercito.
Sembra che gli scampati fossero i primi ad affidarsi a lui, che tanto coraggio e bravura aveva dimostrato nel salvarli dalla morte certa. Era audace, responsabile, onesto, geniale e trascinante. Publio Cornelio trattò le truppe in modo diverso da come usavano i generali, ascoltava i loro bisogni e li trattava benevolmente pur allenandoli pesantemente, lo stesso sistema che sarà usato da Mario prima e da Cesare poi.
Aveva inventato anche una nuova tattica di guerra, un attacco continuo, innovativo rispetto alle lunghe pause dopo la battaglia, un sistema che coglieva di sorpresa ed esasperava il nemico. Lo otteneva mediante un ricambio di uomini studiato a tavolino, in modo che ci fosse sempre un nucleo combattente.
Questo metodo mai usato da nessuno aveva un grande impatto psicologico sugli avversari. Publio pianificava tutto, quanti potevano essere i morti o i feriti, quanti da sostituire. Riusciva pure ad avere molti meno soldati morti in battaglia per cui l’esercito lo adorava e lo credeva figlio di un Dio.
- Non sono conosciuti i metodi dell’addestramento delle reclute nel periodo precedente la fine del III sec.a.c.
- La prima notizia che possediamo sull’argomento riguarda le disposizioni impartite ai tribuni militari delle sue legioni da P.
- Cornelio Scipione Africano, dopo la presa di Cartagena in Spagna (209 a.c.), relative alle esercitazioni quotidiane da far compiere ai soldati.
Il primo giorno dovevano far marciare i soldati in armi a passo di carica per trenta stadi (circa 5,5 km); il secondo giorno dovevano far loro ripulire e riparare le armature e passarle in rassegna alla presenza di tutti; il giorno successivo dovevano farli riposare senza impegnarli in alcuna attività; il quarto giorno, poi, dovevano farli esercitare, alcuni in duelli con spade di legno ricoperte in cuoio e munite di bottoni d’arresto, altri invece nel lancio delle armi, usando anche in questo caso giavellotti con bottoni d’arresto in punta; il quinto giorno dovevano far loro ricominciare daccapo la stessa serie di esercizi.
Approfondimento: SCIPIONE L’AFRICANO GAIO MARIO Mario riformò la struttura della legione, suddividendola in dieci coorti formate da tre manipoli, sempre suddivisi in due centurie ciascuno, ma soprattutto riformò il concetto di esercito. Creò la squadra del genio militare, l’unica al mondo e una delle armi migliori dell’esercito romano, capace di affrontare lavori di alta specializzazione, come costruire ponti, navi per trasporti oceanici, strade.
I Romani ebbero fabri lignarii (falegnami), aerarii (fabbri), fossores (zappatori) e, dall’epoca dell’impero, anche reparti di pontieri. In più c’erano spie, mappatori, battitori ed esploratori sempre in azione nei territori nemici. Il comando supremo della legione era affidato al console, coadiuvato da un legatus, e l’insegna della legione era un’aquila d’argento ad ali spiegate infissa su un’asta, retta da un aquilifer. L’aquila andava difesa ad ogni costo e la sua perdita era il più gran disonore per la legione e per il legionario vessillifero che preferiva la morte alla colpa di questa vergogna.
Infatti Roma soffrì molto per la sconfitta di Varo nel 9 d.c. contro i Germani di Arminio che si appropriarono di quattro insegne romane. Non vollero restituirle ma i Romani nel tempo le riconquistarono tutte e finalmente i legionari di quelle insegne poterono di nuovo marciare a testa alta. Prima della riforma mariana era il senato che decretava la leva (dilectus) ed erano i consoli che emanavano un editto nel quale, tra l’altro, erano fissati il giorno e il luogo dell’adunata di coloro che erano tenuti a rispondere alla chiamata alle armi: i renitenti erano passibili di pene severe.
Man mano che i coscritti si presentavano, il magistrato che presiedeva all’arruolamento esaminava i motivi di un eventuale esonero, che peraltro era previsto in pochissimi casi. Terminati questi preliminari si passava all’accertamento delle qualità necessarie per far parte dell’esercito romano (cittadinanza, età, ecc.) ed all’assegnazione, di coloro che erano risultati idonei, ai reparti: seguiva la solenne cerimonia del giuramento, con il quale tra l’altro il coscritto si impegnava solennemente a presentarsi puntualmente nella località indicata dal magistrato.
- Chi mancava veniva dichiarato disertore, e come tale punito con la pena di morte, a meno che non fosse in grado di invocare una giustificazione seria e documentata.
- Come narra Sallustio, nel 107 a.c.
- Mario, eletto console e col compito di proseguire la guerra contro Giugurta, cambiò il reclutamento per le nuove leve: per arruolarsi nelle legioni, non occorreva possedere beni.
Viene così superato il rigoroso principio che il soldato (miles) romano doveva possedere un determinato censo: principio fino ad allora ferreo, rafforzato dalla convinzione aristocratica che chi non aveva nulla da difendere, non poteva essere un buon soldato.
Mario fu il primo a introdurre la leva volontaria, e ad entrare nell’esercito furono soprattutto i proletari rurali, perchè la plebe urbana sopravviveva, oltre che di sussidi, di clientelismo cittadino. D’ora in avanti le legioni di Roma saranno composte prevalentemente da cittadini poveri, il cui futuro dipendeva dai successi del proprio generale, che gli assegnava a suo piacimento parte delle terre conquistate.
Di conseguenza i soldati appoggiavano il proprio comandante, anche quando si scontrava col Senato patrizio. Mario, persona onesta e fedele alle tradizioni, non si valse mai di questo potere militare, ma lo farà poi Silla, contro il Senato e contro lo stesso Mario.
Sarà poi Cesare a stabilire per legge la suddivisione di terre e bottino tra i soldati, non lasciandoli più al capriccio dei generali. Da quel momento l’esercito romano non fu più mercenario, ma una struttura permanente di volontari, che, impegnandosi a restare sotto le armi dai 16 ai 20 anni ed oltre, dovevano ancora possedere i requisiti fondamentali, e tradizionali anche in età imperiale, innanzi tutto la cittadinanza romana, ma non più quello di essere possidenti.
La carriera militare era ancora obbligatoria per i giovani dei ceti elevati: perchè per le cariche delle magistrature era indispensabile avere adempiuto agli obblighi militari ed essersi messi in buona luce. L’addestramento di Mario fu un dei più duri della storia, tanto che i suoi soldati si auto definirono e furono definiti come “i muli di Mario”.
I militi dovevano marciare, sopportare pesi, scavare, caricare e scaricare, lavorare a turni di giorno e di notte, un addestramento pesantissimo che però i soldati sopportavano, sia perchè il loro comandante sapeva trattarli, sia perchè grazie a questo i loro reparti subivano molto meno perdite degli altri eserciti romani.
Addestrarsi bene significava anzitutto sopravvivere, e poi vincere. Approfondimento: GAIO MARIO PUBLIO RUTILIO RUFO Secondo Valerio Massimo, il console del 105 a.c.P. Rutilio Rufo fu il primo a fare impartire ai suoi soldati lezioni di scherma: egli affidò questo compito a coloro che istruivano i gladiatori.
Si distinse nella battaglia del Muthul, nel corso della quale fronteggiò un attacco di Bomilcare e organizzò la cattura o il ferimento della maggior parte degli elefanti da guerra numidici. Nel 105 a.c. venne eletto console come collega più giovane di Gneo Mallio Massimo. Le sue iniziative principali riguardarono la disciplina militare e l’introduzione di un migliore sistema di addestramento delle truppe.
Qualche altra sintetica notizia sull’addestramento militare ci è data anche dallo storico ebreo, naturalizzato romano, Flavio Giuseppe, per il periodo flavio, e da Plinio il Giovane per il periodo traianeo. Il primo parla con grande ammirazione, ma in maniera generica, dei metodi di addestramento praticati nell’esercito romano ai suoi tempi: ” Non è la guerra quella che li inizia alle armi, né soltanto nell’ora del bisogno essi muovono le mani tenute prima inoperose durante la pace, ma invece, come se fossero nati con le armi in pugno, essi non interrompono mai l’addestramento.
Le loro manovre si svolgono con un impegno per nulla inferiore a quello di un vero e proprio combattimento, che anzi ogni giorno tutti i soldati si esercitano con tutto l’ardore come se fossero in guerra. Non si sbaglierebbe chi chiamasse le loro manovre battaglie incruente e le loro battaglie esercitazioni cruente ” GAIO GIULIO CESARE Il più grande stratega di tutti i tempi, sia nell’arte della guerra sia nel trattare coi soldati che come ambasciatore presso regni stranieri.
Di intelligenza e coraggio straordinari, Cesare era dotato di un carisma che affascinava, oltre le folle, anche i rudi soldati. Cesare fu un condottiero abile e amato come pochi, e come nessuno potè chiedere alle truppe di combattere con lui quando la vittoria era improbabile per la differenza di forze militari, sempre di molto inferiori rispetto al nemico. Era onesto nelle richieste per l’esempio che per primo dava ai sottoposti, tipo scendere da cavallo quando i fanti si lamentarono del privilegio dei cavalieri che avevano a loro avviso più probabilità di sopravvivenza per le cavalcature. Era magnanimo, così appena entrato in servizio raddoppiò lp stipendio ai soldati, ma anche generoso nei bottini, geniale e creativo nella strategia, maestro nell’eloquenza persuasiva, e leggero nel potere gerarchico che esercitò solo per l’obbedienza ai comandi, tanto che i suoi uomini potevano dileggiarlo pubblicamente mentre lo osannavano durante i trionfi, come si fa con un amico.
Il che lo mostra anche uomo di spirito, che non temeva le critiche, per nulla esaltato ma sicuro di sè. Ma era pure un’anima inquieta, sempre tesa ad ottenere il massimo in tutto, e quindi pretendere il massimo da tutti. Il proconsole delle Gallie disse, ” Cesare doveva fare tutto nello stesso tempo: innalzare il vessillo, dispiegare le insegne, chiamare alle armi, richiamare dai lavori i legionari, schierare le truppe, arringare i combattenti, dare il segnale di battaglia.
” Suo grande maestro fu lo zio Gaio Mario, Generale e Console per sei volte, un eroe dei populares, che lo addestrò nel fisico e nelle armi, e gli inculcò la difesa del popolo e dei deboli contro il potere dei nobili. Plutarco (Vita di Cesare): “Pur non avendo combattuto in Gallia nemmeno dieci anni, Cesare conquistò a forza più di ottocento città, assoggettò trecento popoli, si schierò in tempi diversi contro tre milioni di uomini, ne uccise un milione e altrettanti ne fece prigionieri” Cesare era uomo dalla grande inventiva e prontezza di riflessi.
- Le sue strategie non si somigliavano mai, rendendo al nemico imprevedibili i suoi movimenti.
- Riusciva a prendere iniziative in tempi velocissimi e a fare cose mai fatte prima, come combattere per nave, o muovere guerra in inverno mentre l’esercito romano si muoveva nella stagione calda.
- Si mosse più volte in pieno inverno per traversare il Mediterraneo, le Alpi innevate, il Canale della Manica, e, contrariamente all’uso, fece marciare i soldati anche di notte a lume di fiaccole.
Inventò sempre nuovi metodi per sorprendere il nemico, come quello usato contro i Veneti in Bretagna. Non riuscendo a bloccare le loro navi, più snelle e veloci di quelle romane, fece costruire ai suoi uomini enormi falci con cui tagliarono le vele dei Veneti, in modo che non potessero prendere vento e le assalì.
I soldati avevano grande fiducia in lui, sia nelle sue capacità, sia nella cura che aveva di risparmiare la loro vita, sia nella generosità ed equità nella spartizione dei bottini. Prima di ogni battaglia parlava ai soldati in modo trascinante e nello stesso tempo molto razionale, infatti spiegava loro lo svolgimento della battaglia affinchè fossero preparati alle modifiche.
Era così persuasivo da chiedere il loro consenso alle battaglie, anche le più pericolose, per esempio nella guerra civile contro Pompeo, e l’adesione arrivò sempre. Disse che: ” E’ dovere di un Capo vincere non meno col senno che con la spada “. In effetti le vittorie furono in larga parte frutto delle sue strategie oltre che del valore di combattenti.
Infatti limitò come pochi le perdite dei soldati in battaglia, tanto più che i suoi uomini erano sempre di molto inferiori di numero a quello avversario. Cesare chiamava i suoi soldati commilitoni, cioè cum-militantes, cioè quelli che combattevano insieme a lui; un titolo di parità e non di gerarchia.
Li riforniva di ottimi equipaggiamenti, dando loro delle armi decorate con oro e argento per aumentare il loro prestigio, in parte perchè così erano rinforzate, ma soprattutto perchè facessero l’impossibile per non perdere in combattimento armi tanto preziose.
- Spingeva gli uomini a correre, spesso con lui in testa, con tutto il peso che si trascinavano irrobustendone straordinariamente i muscoli, si che andavano a velocità doppia rispetto agli avversari.
- Inoltre gli faceva zappare la terra, fortificando straordinariamente i muscoli delle braccia e delle spalle, in modo da avere più forza ed agilità nell’uso delle armi, ma pure per riuscire a montare un campo fortificato a tempo record.
Quando Cesare doveva traversare zone prive di alberi, faceva trasportare i pali da accampamento ai soldati, uno a testa legato sulla schiena, per limitare al massimo l’uso dei carri che rallentavano l’andatura e che potevano rappresentare una tentazione di bottino per i nemici.
Anche il cibo per lo stesso motivo era ridotto al minimo, procurandoselo via via con i razziamenti e la caccia. Si spostava grazie a questi accorgimenti così rapidamente che i suoi nemici faticavano ad individuare le sue posizioni. I suoi accampamenti furono un capolavoro di ingegneria, con palizzate e torri di legno montate in tempo rapidissimo, al punto che in una stessa giornata potevano smontare e rimontare un accampamento molti km più avanti.
I soldati non si accampavano mai all’aperto, dopo una giornata di cammino costruivano l’accampamento con le palizzate in legno, le tende, i ripostigli per il cibo e le armi, e se c’era pericolo i soldati dormivano con l’armatura accanto o addirittura addosso. I suoi uomini erano in grado di costruire tutto, dalle catapulte, ai fossati protetti, alle balestre, alle torri, alle trappole, ai ponti. Costruì per primo nella storia un ponte fisso sul Reno, in soli 10 giorni, lungo oltre mezzo Km, cosa che spaventò i Germani perchè Cesare non poteva essere fermato nemmeno da un fiume enorme come il Reno.
Ma all’occorrenza fece anche deviare il corso di fiumi o scavare canali per ridurre il livello delle acque e passare a guado. Cesare allenò i soldati non solo alla velocità, la forza e l’abilità nelle costruzioni, ma pure alla sorpresa. Li svegliava improvvisamente di notte costringendoli armati a correre fuori dell’accampamento con lui in testa.
Oppure li faceva correre nei giorni di riposo, per controllare quanto rapidamente sapessero armarsi e correre in territori sconosciuti e imprevedibili. Li abituò così agli ordini improvvisi e alle sorprese. Svetonio racconta che Cesare non giudicava i soldati dai costumi o dall’aspetto, ma dalle loro forze, e li trattava con pari severità e indulgenza, indipendentemente dal grado.
Non li costringeva all’ordine sempre e ovunque, ma solo di fronte al nemico: allora esigeva una disciplina inflessibile, non preannunciando mai il momento di mettersi in marcia né quello di combattere, ma voleva che i suoi uomini fossero sempre vigili e pronti a seguirlo in qualsiasi momento ovunque li avesse condotti.
Si comportava così anche senza un motivo, e specialmente nei giorni piovosi o festivi. Talvolta, dopo aver ordinato ai soldati che non lo perdessero di vista, si metteva in marcia all’improvviso, di giorno come di notte, e forzava il passo per stancare chi avesse tardato a seguirlo.
- Cesare era anche un ottimo estimatore di uomini, ne individuava i potenziali e li incoraggiava e premiava, indipendentemente dalla classe sociale.
- Ad esempio Ventidio Basso, generale di Marco Antonio, era di origini umilissime.
- Venne fatto prigioniero insieme a sua madre quando era ancora bambino da Pompeo Strabone, padre di Pompeo Magno.
Da adolescente fu addetto alla cura dei muli in dotazione ai magistrati finché non venne notato da Giulio Cesare che apprezzandone la forza e l’intelligenza lo arruolò nel suo esercito in partenza per la Gallia. Durante quella guerra e la successiva guerra civile ottenne il crescente favore di Cesare che lo portò ad un’insperata carriera, finchè lo pose a capo delle Province Orientali sotto Marco Antonio e quando i Parti invasero la Siria li sconfisse in tre battaglie ottenendo il trionfo.
Molti si arruolavano da Cesare perchè sapevano che sarebbero stati valutati secondo il merito e non secondo il censo, per cui chi aveva capacità poteva sperare al massimo. I Galli avevano chiesto a Cesare di aiutarli a ricacciare oltre il Reno i Germani guidati da Ariovisto. Cesare propose ad Ariovisto di stipulare un accordo ma l’altro rifiutò.
Occorreva combattere ma le legioni, intimorite dalla fama feroce e guerriera dei Germani stavano per ammutinarsi. Cesare annunciò allora che avrebbe sfidato Ariovisto portando con sé solo la fedelissima X legione, che alla richiesta rispose affermativamente.
- Per l’amore che i soldati portavano a Cesare, e per non apparire codardi, le altre legioni lo seguirono.
- Ancora una volta Cesare aveva avuto ragione con un colpo di genio, ma rischiando tutto.
- Così insegnò ai suoi milites a rischiare, ma supportati da un razionale ragionamento, in cui tutto era previsto e nulla lasciato al caso.
Approfondimento: GIULIO CESARE L’IMPERO In epoca imperiale: l’estensione dei confini impose la presenza di un esercito permanente e perciò la leva si basò sulla coscrizione volontaria, costituendo un esercito professionale, necessario perché la sopravvivenza dell’impero non poteva essere salvaguardata da truppe occasionali.
Dopo la riforma di Mario, essendo la maggior parte dei soldati volontari e quindi disponibili ad una lunga permanenza nell’esercito, la ferma fu fissata in sedici anni. Nel 13 a.c. Augusto confermò tale durata: a causa però delle difficoltà che incontrava l’erario per pagare ai veterani il premio di congedo di fine servizio (praemium militiae: vd.
infra), la ferma fu portata a venti anni. Ma poiché neppure questo provvedimento si dimostrò sufficiente a risolvere le difficoltà finanziarie dello stato, invalse l’uso di trattenere sotto le armi anche i congedati (i veterani) che, inquadrati in reparti speciali, vi restavano per periodi molto più lunghi di quello legale, a volte più di trent’anni, con una competenza unica che poteva essere trasmessa alle reclute. Con Adriano, restaurate le finanze dello stato, fu possibile accordare il congedo allo scadere della ferma stabilita, che restò fissata, sino al V secolo, in vent’anni. Tutti i militari, da soldato semplice a centurione, che, dopo aver ultimato il servizio militare, ottenevano l’honesta missio, venivano designati come veterani.
- Tale qualifica comportava un praemium militiae, una somma di denaro consegnata all’atto del congedo.
- A causa della difficoltà di pagare il premio in denaro, tuttavia, Augusto ed i suoi successori lo sostituirono con assegnazioni di terre, in Italia o anche nelle province, generalmente in località diverse da quelle in cui i veterani avevano servito per molti anni.
Ma per alcuni veterani vivere lontani dai territori dove erano vissuti a lungo non era allettante: e molti abbandonavano o vendevano i poderi per ritornare nella zona dove avevano militato. Plinio accenna genericamente all’addestramento nel Panegirico a Traiano, quando loda l’impegno con cui l’imperatore stesso prendeva personalmente parte alle esercitazioni dei suoi soldati.
- Vegezio: “I soldati romani furono sottoposti in tutti i tempi ad un duro addestramento, non soltanto per renderli vigorosi combattenti ed agili e infaticabili marciatori, ma anche per evitare che restassero in ozio: i comandanti erano consci che l’inazione genera la svogliatezza e l’indisciplina.
- In età repubblicana, se la legione restava ferma per qualche tempo nello stesso accampamento, il comandante impegnava gli uomini in lavori manuali pesanti, ad esempio facendo scavare più profondamente il fossato di difesa, rinforzare la palizzata ed anche costruire, per poi demolire, delle opere completamente inutili.
Come negli eserciti dei nostri tempi, si preparava la recluta alla marcia a passo ritmico, mentre per fargli acquisire agilità, gli si facevano eseguire esercizi di salto e di velocità: quest’ultima era preliminare alla corsa cadenzata nei ranghi, che serviva per allenare la truppa a seguire le insegne, conservando le distanze e l’ordine dello schieramento.
L’addestramento con le armi aveva luogo due volte al giorno e comprendeva diversi esercizi: innanzitutto la scherma contro un palo, armati di uno scudo e di un bastone di vimini (che pesavano il doppio delle armi vere), seguita, come pratica e necessaria conclusione, dal combattimento simulato, uomo contro uomo.
Completavano la preparazione il tiro con l’arco, il lancio di sassi, sia con le mani che con la fionda, e soprattutto del giavellotto. Tre volte al mese, infine, si facevano eseguire delle marce, con il carico completo (da 20 a 30 kg) e su tutti i tipi di terreno, di ventimila passi (circa 28, 5 km), durante le quali, di tanto in tanto, si ordinava di accelerare il passo.
- Le esercitazioni, naturalmente, proseguivano anche d’inverno, in grandi locali chiusi.” Nei periodi di pace, i soldati venivano impiegati non solo nella costruzione e nella manutenzione di apprestamenti militari, ma anche in lavori di pubblica utilità.
- Ogni legione aveva nel suo organico degli specialisti, genieri, capaci non solo di edificare o abbattere mura e fortificazioni, ma anche di eseguire, ad esempio, i rilievi per un canale, di progettare e costruire strade, acquedotti, ponti, ecc.
I soldati erano addestrati come operai specializzati e il loro equipaggiamento personale comprendeva anche i fondamentali utensili di costruzione, tra cui un’ascia (piccone multiuso), accuratamente progettata, la dolabra. I comandanti, per evitare il rilassamento della disciplina dovuta all’inattività, nei periodi di stasi delle attività belliche, erano soliti adoperare i loro uomini anche per realizzare grandi lavori, soprattutto a basso costo, di pubblica utilità, spesso non legati in nessun modo né alle necessità dell’esercito, né alle operazioni belliche in corso.
- Notizie sull’impiego di manodopera militare nella costruzione di opere di interesse generale si hanno fin dal 187 a.c., quando il console M.
- Emilio Lepido fece costruire dai suoi soldati una via lastricata tra Rimini e Piacenza, l’Emilia; Mario, a sua volta fece scavare dai suoi legionari, nel 104-102 a.c.
un canale dal delta insabbiato del Rodano al mare, e Silla, durante la guerra contro Mitridate, fece deviare il fiume Cefiso, in Attica. Altre opere impegnative, degne di essere ricordate, sono la costruzione di un canale tra la Mosa e il Reno e la progettata realizzazione di un altro tra la Mosella e la Saône.
Augusto, per rendere più fertile l’Egitto e quindi più abbondante l’approvvigionamento di Roma, che dipendeva dal grano egiziano, fece pulire, impiegando la truppa, tutti i canali, attraverso i quali il Nilo straripava. Impegnati in molte altre opere civili, acquedotti, ponti, lavori per lo sfruttamento di miniere, i soldati romani risultarono del resto utili anche in varie situazioni d’emergenza: come una volta in Siria, per distruggere le cavallette.
Per quanto riguarda le infrastrutture militari, già Cesare aveva utilizzato gli uomini delle sue legioni per realizzare imponenti opere di ingegneria militare: dalle fortificazioni intorno ad Alesia, ad un ponte sul Reno, alla costruzione di una flotta nella guerra contro i Galli Veneti.
Per il periodo imperiale, basti ricordare l’edificazione delle fortificazioni a difesa delle frontiere dell’impero, il limes: in particolare quello della Britannia, per non parlare delle viae, che, nate per scopi militari, coprirono poco a poco, fin dall’età repubblicana, l’intero territorio dello stato.
Infine, in età imperiale i lavori per la costruzione e manutenzione degli accampamenti (castra) permanenti e dei fortini, una fonte inesauribile di occupazione per le guarnigioni che vi alloggiavano. I soldati edificavano le fortificazioni, gli alloggiamenti, i magazzini, le terme, le palestre, le biblioteche e gli anfiteatri extraurbani. L’ADDESTRAMENTO DEGLI ACCAMPAMENTI L’accampamento, soprattutto finquando le legioni non erano ancora schierate a difesa delle frontiere dell’impero, e cioè fino all’età augustea, rappresentò un fattore importante per l’ottimo addestramento e i conseguenti successi dell’esercito di Roma, un esercito che nel mondo antico non ebbe uguali.
Vi furono due tipi di accampamento: quelli delle truppe che si spostavano quasi giornalmente, a volte per la sola notte, un accampamento mobile e provvisorio; quando, invece, le frontiere si stabilizzarono, nei loro pressi furono costruite strutture permanenti, dove le legioni restarono per lunghi periodi, fino al III-IV sec.d.c., trasformandosi talvolta in città.
Per rendersi conto del lavoro e le fatiche dei soldati per costruire un accampamento adatto ad accogliere due legioni, con militari romani, truppe ausiliarie e truppe alleate, eccone un esemplare tipo. L’accampamento era un quadrato di 650 m circa di lato, vale a dire di ben 42 ettari che, una volta ultimato, diventava una città fortificata, con circa 20 mila abitanti, traversata dalle due arterie principali, perpendicolari tra loro, il cardo ed il decumanus, intersecate da altre strade, parallele ad esse, larghe da 15 a 30 m, lungo le quali si allineavano le tende dei soldati, dei sottufficiali, degli ufficiali e quella del comandante.
Come in una città vi erano quattro porte, corrispondenti agli sbocchi delle due strade principali. La tenda del generale, posta al centro del praetorium, era il centro dell’accampamento, con l’altare dove il generale stesso sacrificava agli Dei, la tribuna da cui arringava i soldati ed il foro dove i soldati ascoltavano le parole del generale.
Nell’accampamento i trombettieri davano la sveglia prima dell’alba e al primo levarsi del sole i soldati incaricati in rigida successione, smontavano le tende e le caricavano sui carri, che intanto erano stati approntati dagli addetti ai carriaggi, insieme alle altre salmerie, costituite dalle macchine belliche, dalle macine per il frumento, dalle armi di riserva, ecc.
Terminate rapidamente queste operazioni, la legione iniziava la marcia di trasferimento e ogni soldato, inquadrato nella sua centuria, portava il proprio bagaglio personale, del peso di circa 20 kg, comprendente anche un paletto per erigere velocemente la palizzata attorno al prossimo accampamento, nonchè la sua razione di frumento per qualche giorno, le sue armi personali, ecc.
Mediamente il soldato romano marciava per 7 ore consecutive, dall’alba alle 13-14, coprendo a passo normale, circa 6 km l’ora e a passo accelerato, se necessario, 7 km. Tenendo conto delle soste per il riposo e il pasto del mezzogiorno, percorreva in un giorno dai 30 ai 35 km, naturalmente se tutto andava liscio.
Prima di fermarsi, si staccavano dalla legione un tribuno militare ed un centurione che, accompagnati da alcuni soldati, andavano in avanscoperta per scegliere la località più adatta, tenendo conto della difendibilità del luogo, della presenza di acqua, delle alture o boschi vicini, ecc., per impiantarvi il nuovo accampamento.
Naturalmente erano militari scelti per l’esperienza, la capacitò e la velocità di valutazione, perchè tutto doveva essere rapido e preciso. Scelto il posto, i soldati del seguito, sotto il controllo del tribuno e del centurione, eseguivano rapidamente le misurazioni, anch’essi provetti in questa mansione e facilitati dall’assetto dell’accampamento rigidamente prefissato, sia nelle dimensioni che nella disposizione degli spazi per le tende, per le vie, per il foro, spazi che venivano contrassegnati con vessilli di colore diverso, cosicché all’arrivo della legione, ciascun reparto individuava immediatamente la sezione assegnatagli.
- Prima di alzare le tende si dovevano approntare le opere di fortificazione dell’accampamento, cioè il fossato, il terrapieno e la palizzata.
- Il fossato aveva dimensioni variabili e sezione triangolare: con la terra scavata da esso si costruiva un terrapieno, su cui si innalzava la palizzata, costruita con i paletti che facevano parte del bagaglio personale del legionario.
L’apprestamento dell’accampamento e delle fortificazioni impegnavano severamente i soldati, che già avevano marciato stracarichi per sette ore, quando non erano reduci da una battaglia. Suddivisi in squadre, sotto il controllo dei centurioni, provvedevano ai lavori alla cui perfetta esecuzione sopraintendevano quattro ufficiali, uno per lato.
Sistemato il campo in tutti i suoi dettagli, veniva predisposto il servizio di vigilanza, anch’esso faticoso ed impegnativo, diurno e notturno. Per i turni di notte, a ciascun posto di guardia presiedevano quattro uomini: e poiché la notte era divisa in quattro vigiliae, ciascuno dei soldati aveva un turno di un quarto dell’intera notte, durante il quale gli altri tre dormivano.
Il segnale del cambio era dato da un trombettiere. Ronde ispezionavano ciascun posto per ogni turno con pene severissime per la sentinella addormentata. Ora i milites erano liberi, e un po’ prima del tramonto, consumato il pasto della sera, di giocare a dadi, di chiacchierare o andare a riposare.
- Dieci uomini dello stesso reparto occupavano una tenda, con uno stretto cameratismo, che facilitava l’intesa durante i combattimenti.
- Se il giorno successivo si doveva ripartire si ripetevano le operazioni consuete, che si svolgevano sempre con la stessa successione: al primo segnale si smontavano le tende e si affardellavano, a cominciare da quelle del comandante e degli ufficiali, al secondo segnale si caricavano i bagagli sui carri e sulle bestie da soma, al terzo le legioni si mettevano in marcia.
Se invece non si doveva partire, i soldati venivano impiegati per rinforzare le fortificazioni, per tenere in ordine l’accampamento, per pulire le armi o per le esercitazioni militari. Con la riforma di Augusto, che assegnò all’esercito compiti prevalentemente difensivi ai confini dell’impero, i castra divennero insediamenti stabili, costruiti in muratura ed in legno, muniti di adeguate fortificazioni, con migliori condizioni di vita del soldato, anzitutto per l’assistenza sanitaria, l’alimentazione più varia ed abbondante, le condizioni igieniche migliorate da terme e bagni pubblici, e maggiori occasioni di svago, poichè intorno a questi insediamenti fissi stazionavano venditori di cibi cotti e bevande, artigiani, mimi, giocolieri e prostitute. Fu Cesare il primo comandante ad immettere nell’esercito medici, chirurghi e medicine nel corso della guerra gallica, e Augusto naturalmente lo imitò riconoscendone intelligentemente la validità. Così dette ad ogni legione un certo numero di medici, che erano coadiuvati da infermieri.
Negli accampamenti stabili instaurò inoltre il valetudinarium, un’infermeria in muratura, con cortile interno, bagni, acqua potabile e attrezzature sanitarie per i malati ed i feriti più gravi, mentre gli altri continuarono ad essere curati nelle loro tende. Quasi tutti gli accampamenti avevano, inoltre, le terme, luogo di igiene e di svago, che come tutto il resto venivano costruite e mantenute nell’ordine, nella pulizia e nell’efficienza, sempre dai militari.
Contiguo ad ogni accampamento, veniva assegnato alla legione un ampio territorio, che era utilizzato per allevare animali da macello, per la caccia e per chi lo richiedeva, veniva concesso un appezzamento di terra, che veniva coltivato ad orto e frutteto o direttamente dal militare o con la collaborazione della moglie e dei figli, che vivevano nelle zone circostanti.
- Infine, vi si svolgevano attività di carattere sportivo-ricreativo che permettevano ai soldati di mettere in mostra la loro bravura e di tenersi in esercizio.
- Attorno ad ogni accampamento, in particolare, si formò un agglomerato di baracche (canabae), nelle quali si installarono anche le mogli, le conviventi e i figli dei militari dell’accampamento, i quali avevano così anche il conforto dei familiari.
Gli stessi veterani, del resto, dopo il congedo, preferivano fissare la loro residenza nella canaba, proprio perché lì si era creato il focolare domestico e nell’accampamento vicino vivevano molto spesso uno o più figli, che militavano nell’esercito.
- All’interno degli accampamenti, i soldati seguivano la religione ufficiale, soprattutto di Giove e Marte, il Dio militare per eccellenza, ma soprattutto delle insegne e dell’imperatore.
- Le insegne furono sempre oggetto di particolare rispetto da parte dei soldati, i quali in combattimento le difendevano con accanimento.
In età imperiale, i soldati onoravano soprattutto l’imperatore vivente, la cui immagine era riprodotta su medaglioni fissati sulle aste delle insegne. Ma i soldati veneravano anche le divinità del loro paese d’origine, spesso insieme a quelle che imparavano a conoscere nel territorio in cui prestavano il servizio militare.
- Si che diversi sacelli si ergevano accanto a quelli ufficiali, per l’assoluta tolleranza romana verso tutte le religioni, conosciute e sconosciute.
- Tutto ciò cementava l’animo dei soldati, che si sentivano in sintonia con gli Dei, con la Patria, con Roma e con la gloria personale, uniti alla speranza di sopravvivere alle guerre ed accumulare un bel gruzzolo per godersi la vecchiaia.
Poi gli Dei entreranno in conflitto perchè entreranno in conflitto gli animi. Ti potrebbe interessare anche: I GRADI DELLA LEGIONE BIBLIO – Dionigi di Alicarnasso – Le antichità romane, a cura di Francesco Donadi e Gabriele Pedullà -Einaudi – Torino – 2010 – – Giovanni Brizzi – Si vis pacem, para bellum, in Storia romana e storia moderna.
Come si sono estinti i romani?
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera. La distruzione dell’Impero romano, di Thomas Cole, Dipinto allegorico (ispirato molto probabilmente al sacco di Roma dei Vandali del 455 ), quarto della serie ” Il corso dell’Impero ” del 1836, oggi a New York, presso la New-York Historical Society,
- La caduta dell’Impero romano d’Occidente viene fissata formalmente dagli storici il 476 d.C., anno in cui Odoacre depose l’ultimo imperatore romano d’Occidente, Romolo Augusto,
- Ciò fu il risultato di un lungo processo di declino dell’ Impero romano d’Occidente in cui quest’ultimo non riuscì a far rispettare il suo dominio sulle sue province e il suo vasto territorio fu diviso in diverse entità.
Gli storici moderni hanno ipotizzato diversi fattori causali tra cui il declino dell’efficienza del suo esercito, la salute e il numero della popolazione, la crisi dell’economia, l’incompetenza degli imperatori, le lotte interne per il potere, i mutamenti religiosi e l’inefficienza dell’amministrazione civile.
- Anche la crescente pressione da parte delle invasioni barbariche, ovvero di popoli estranei alla cultura latina, contribuì notevolmente alla caduta.
- Sebbene la sua legittimità sia durata per secoli e la sua influenza culturale permanga ancora oggi, l’Impero d’Occidente non ha mai avuto la forza di risorgere, non riuscendo più a dominare alcuna parte dell’Europa occidentale a nord delle Alpi.
L’ Impero romano d’Oriente, o bizantino, sopravvisse e, sebbene diminuito in forza, rimase per secoli una potenza effettiva del Mediterraneo orientale fino alla sua definitiva caduta nel 1453 da parte dei Turchi ottomani,
Come si nutrivano i romani?
Salari e costo della vita a Roma – IL DENARO CORRENTE A ROMA, ANNO 0 A Roma, all’epoca di Cesare Augusto, la moneta di valore più alto era l’Aureo, una moneta d’oro di 8 g (Cesare ne standardizzò il peso a 1/40 della libbra romana). Le monete di taglio inferiore erano frazioni dell’aureo:
Aureo = 1Quinario d’oro = 1/2 aureoDenario d’argento = 1/25 (chiamato anche Dracma)Quinario d’argento = 1/50Sesterzio = 1/100Asse = 1/400Quadrante = 1/1600
La moneta corrente, però, quella cioè a cui si faceva riferimento nella quotidianità, era il Denario d’argento per cui, per una questione di praticità, le monete di taglio inferiore erano sottomultipli del Denario, ognuna ¼ di quella superiore 1 Denario = 4 Sesterzi, 16 Assi, 64 Quadranti. I SALARI DEI ROMANI (paga giornaliera, in sesterzi)
Operaio = 3Legionario = 8Avvocato = fino a 10.000Gladiatore (premio) = 15.000 – 60.000Schiavo (prezzo) = 1.200 – 2.500
IL PATRIMONIO DEGLI ARISTOCRATICI (in sesterzi)
Crasso = 192.000.000Plinio il giovane = 20.000.000Senatore = 1.000.000 (minimo)
IL COSTO DELLA VITA (in sesterzi)
Pane (1 kg) = 0.5 (2 assi)Vino (1 litro) = 0.5 – 1 (2-4 assi)Olio di oliva = 2 – 3Piatto di legumi = 0.5 (2 assi)Ingresso Terme = 0.1 – 1Una casa a Roma = 500.000 – 2.500.000
Le abitudini alimentari dei romani erano molto ben definite: i patrizi e gli aristocratici mangiavano carne, riccamente contornata, il popolo mangiava legumi, pane, olive, formaggi, talvolta un po’ di pesce fritto o salato, raramente carne, di pollo o capra.
Come si baciavano gli antichi romani?
“Straziami, ma di baci saziami”. Come baciavano i romani? Per i Romani esistevano, come del resto per noi ancora oggi, diversi tipi di baci. Il primo è l’ osculum, Il termine deriva da ” os “, ovvero “bocca” (” osculum ” è il diminutivo), ed era il tipo di bacio casto, consentito in pubblico o durante le cerimonie.
Leggi anche C’era poi il savium, Il bacio passionale vero e proprio, con la lingua, insomma quello che noi chiameremmo “alla francese”. Infine, c’era il basium, Da questo termine deriva l’odierna parola “bacio”. Quest’ultimo termine ha origini più recenti rispetto agli altri, e andò progressivamente a sostituire le parole precedenti.
Tale parola, inoltre, ha subito una degenerazione semantica: inizialmente era sinonimo di ” savium “, ma in epoca tardo antica andò ad indicare semplicemente un bacio affettuoso, che si dava alla prole o alla propria consorte. Esistevano anche altri modi e tipi di bacio, usati nel quotidiano e in pubblico – se il savium in pubblico era considerato scandaloso, altri tipi di bacio non lo erano affatto, come quello affettuoso sulla guancia per salutare gli amici.
- Oltre che per strada o tra amici, erano anche comuni i baci in Senato, come gesto di riconciliazione o per riconoscere un merito.
- Lo scambio di baci era un modo implicito per riconoscere pari dignità alla persona che si salutava (in caso di grande differenza di ceto sociale, non v’era alcuno scambio, almeno non pubblicamente).
I baci, ovviamente, potevano anche non esser ricambiati, ma ciò era visto come un gesto d’inimicizia e una mancanza di rispetto. In epoca tardo antica, specie nella parte orientale dell’impero, si diffuse un’altra pratica, che sembra molto moderna, ovvero l’usanza di baciare le mani, in segno di deferenza o devozione.
- Per i Romani, baciare la mano (o meglio l’anello) era considerato un gesto molto servile e di riverenza.
- I bambini, inoltre, dovevano baciare la mano del proprio padre.
- Infine, anche in epoca antica esisteva, come oggi, l’abitudine di mandare bacini a distanza.
- Questa però non è un’invenzione romana, ma anzi le sue origini si rintracciano in Mesopotamia.
Curiosamente, è una pratica che deriverebbe dalla sfera religiosa: infatti, era vietato baciare statue o effigi di divinità. La cosa venne ripresa, in seguito, anche dai primi cristiani. Il bacio a distanza veniva però fatto in modo un po’ diverso da come si fa oggi: infatti si usavano solo il pollice e l’indice.Il gesto, ben presto, venne usato anche nel quotidiano, col medesimo significato di oggi. Ph.
Letture consigliate A. Angela 2016, A. Angela 2016,
: “Straziami, ma di baci saziami”. Come baciavano i romani?
Come si rinfrescavano gli antichi romani?
Il principio di funzionamento delle Torri Iraniane –
In origine esistevano solo le Torri del Vento che rinfrescavano esclusivamente per convezione, introducendo l’aria fresca e spingendo fuori quella più calda.L’evouzione delle tecniche e delle conoscenze ha portato allo sviluppo di nuovi sistemi di raffrescamento passivo, che oltre alla convezione sfruttano l’evaporazione.Nello specifico, l’aria calda viene convogliata sopra un canale d’acqua, anche interrato in profondità, dove la temperatura si mantiene bassa e costante tutto l’anno.Iran, Persia e Paesi Medio Orientali tutt’oggi utilizzano questi sistemi per garantire temperature accettabili all’interno delle abitazioni delle zone più calde, dove si superano abbondantemente i 40 gradi.
Come facevano gli antichi con il mal di denti?
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Con l’arrivo delle festività pasquali, le nostre tavole si riempiranno di gustosissimi dolci e il rischio di carie sarà proprio dietro l’angolo. D’altra parte, al di là delle occasioni, che possono favorire o meno queste brutte sorprese, la carie resta una delle malattie più diffuse al mondo.
Una patologia che colpisce ogni anno 190 milioni di persone e che già gli antichi conoscevano molto bene. Nel “Corpus Hippocraticum”, ad esempio, la carie viene nominata più volte ed è considerata come l’espressione di un’alterazione dei quattro umori. In questo caso la terapia proposta era l’ estrazione dell’elemento cariato, altrimenti si doveva procedere a sciacqui tenendo in bocca l’oppio, il pepe ed alcune erbe medicamentose essiccate.
Nella Roma antica, la carie dentale veniva considerata come la causa più comune del mal di denti e veniva curata in prima istanza con l’assunzione di farmaci e di collutori a base di oppio, incenso, giusquiamo, pepe e piretro. Successivamente era possibile porre, direttamente nella cavità cariosa, grani di pepe o bacche di edera.
- Nei casi in cui tale rimedio falliva, era necessaria un’infusione di origano e arsenico in olio, posti nella cavità che veniva poi chiusa con la cera.
- In caso di pulpite, invece, si usava perforare con un piccolo trapano il dente in più punti, introducendo olio.
- Le estrazioni dentarie venivano effettuate solo in casi estremi.
Plinio, nella sua Historia Naturalis, espone la “teoria del verme”, già nota in epoca babilonese, come agente eziologico della carie. Secondo questa teoria la carie scaturiva proprio a causa di un verme in grado di scavare, come un vero e proprio tarlo, gallerie all’interno dell’elemento dentale.
Al periodo tardo-imperiale, e in particolare ad Archigene d’Apamea, invece, sembra sia da attribuire l’invenzione di un rudimentale trapano, con il quale era possibile perforare il dente e penetrare nella camera pulpare, in modo da porre topicamente sostanze medicamentose. Rufo d’Efeso (II sec.d.C.), infine, ideò un materiale per otturare le cavità cariose, costituito da una miscela di allume di rocca, mirra, cumino, pepe nero e aceto.
Insomma, pratiche lontanissime da quelle attuali, ma che dimostrano capacità d’ingegno e una forte attenzione nei confronti della problematica, anche nel passato. Oggi nel Centro Odontoiatrico Freesmile, per curare la carie dentale, rimuoviamo il tessuto cariato attraverso degli appositi strumenti meccanici. BESbswy BESbswy