Cosa Significa Ridere A Denti Stretti?
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far morir dal ridere (morir dal ridere; crepare dal ridere; fare crepar dal ridere; scoppiare dal ridere), far ridere, far ridere i polli, far ridere i sassi (far ridere le pietre), far ridere il mondo, far ridere le panche, non farmi ridere!, ridere a denti stretti, ridere come un cavallo, ridere di cuore (ridere di gusto), ridere in faccia, ridere sotto i baffi, ridere verde, tutto da ridere far morir dal ridere
Essere molto divertente, oppure assurdo, incredibilie o spropositato. Anche in senso ironico.
L’espressione era diffusa già nell’antichità greca e latina, con varianti quali “andare in mille pezzi” di Seneca o “dissolversi” di Terenzio. Var. : morir dal ridere; crepare dal ridere; fare crepar dal ridere; scoppiare dal ridere far ridere
Parlare, agire o comportarsi in modo estremamente ridicolo, tanto da suscitare le risate altrui. Riferito a una cosa, essere talmente sciocca o di poco conto da non meritare nemmeno di essere presa in considerazione, come ad esempio nel caso di minacce talmente esagerate che “fanno ridere”. Di un lavoro o altro che va eseguito, essere molto semplice e facile.
far ridere i polli
Parlare, agire o comportarsi in modo estremamente ridicolo, tanto da costringere a ridere anche chi non ne avrebbe affatto voglia o chi non sarebbe nemmeno in grado di farlo, in questo caso i polli.
far ridere i sassi
Rendersi estremamente ridicoli, tanto da far ridere anche chi non è in grado di farlo, come appunto i sassi.
Var. : far ridere le pietre far ridere il mondo
Far ridere tutti, coprirsi di ridicolo in vari modi.
far ridere le panche
Rendersi involontariamente ridicoli, tant da far ridere non solo le persone ma perfino le panche sui cui stanno sedute.
Il detto è legato ai vecchi spettacoli di piazza, per i quali a volte venivano allestiti dei posti a sedere. Molti spettatori si portavano da sé sgabelli e seggiole, ma i girovaghi più furbi provvedevano a disporre essi stessi un certo numero di panche per attirare più pubblico.
Esclamazione: si usa nei confronti di qualcuno che dice stupidaggini, fa richieste inadeguate o racconta fatti incredibili. Esprime incredulità ma anche insofferenza e stizza.
ridere a denti stretti
Ridere malvolentieri, forzatamente, come stringendo i denti per sopportare meglio il fastidio di doverlo fare. farlo.
ridere come un cavallo
Ridere in maniera sgraziata, emettendo una specie di nitrito o mettendo in mostra tutti i denti, soprattutto se grandi e lunghi.
ridere di cuore
Ridere gustosamente, sinceramente, per qualcosa che diverte realmente.
Var. : ridere di gusto ridere in faccia
Ridere sfacciatamente di scherno, in genere di fronte a una proposta assurda o giudicata inadeguata.
ridere sotto i baffi
Sogghignare, sorridere di nascosto con malizia o segreto compiacimento, come nascondendo il movimento delle labbra sotto il pelo dei baffi.
ridere verde
Ridere forzatamente, senza averne affatto voglia poiché si è in realtà pieni di rabbia, d’impotenza, d’invidia e così via.
Il verde è il colore della bile, che si riteneva aumentasse di quantità sotto l’effetto dell’ira. tutto da ridere
Si usa in senso ironico nei confronti di qualcosa di poco serio, non attendibile, oppure ridicolo e assurdo.
Vedi la definizione di ridere Vedi i sinonimi di ridere
Qual è il significato di ridere sotto i baffi?
R. di nascosto, con malizia o compiacimento: mentre parlava, tutti ridevano sotto i baffi.
Qual è il significato dell’espressione ridere di cuore?
Con grande soddisfazione: ridere di c.
Come si chiama ridere?
≈ ↑ sbellicarsi, ridere a crepapelle. ↓ ghignare, ridacchiare, sogghignare, sorridere.
Che cosa vuol dire farla in barba?
Prep. a dispetto, a scapito di: fa quello che vuole, in barba alla legge.
Qual è il significato di ridere a crepapelle?
Crepapèlle. – Nelle locuz. mangiare a c., ridere a c., e sim., moltissimo, smoderatamente, in modo quasi da scoppiarne.
Chi fa ridere come si chiama?
Cómico: approfondimenti in ‘Sinonimi_e_Contrari’ – Treccani.
Quanti tipi di risata ci sono?
Tipi di risata – 0:07 Risata maligna La risata può essere classificata in vari modi. In base all’intensità: il ridacchiare, il cachinno (la risata sguaiata), la risatina, il riso represso, lo sghignazzamento, la risata di pancia (a crepapelle), lo scoppio di risa.
Secondo l’apertura di bocca: risolino, sogghigno, sghignazzo. Secondo il modo respiratorio: sbuffata ilare. Secondo l’emozione: sollievo, allegria, gioia, felicità, imbarazzo, scuse, confusione, risata nervosa, risata paradossale, risata di cortesia, risata malvagia. Le risate possono essere classificate anche in base alla sequenza di note o tonalità che producono.
È stato anche determinato che gli occhi si inumidiscono durante la risata, come riflesso delle ghiandole lacrimali,
Cosa significa mangiare come un cavallo?
Modi di dire con Mangiare – mangiare a quattro palmenti, mangiare a ufo (mangiare il pane a ufo), mangiare coi piedi, mangiare come un bue, mangiare come un grillo, mangiare come un porco (mangiare come un maiale), mangiare come un re (mangiare da re; mangiare come un principe), mangiare come uno scricciolo, mangiare come un uccellino, mangiare per due, mangiarsi vivo qualcuno mangiare a quattro palmenti
Mangiare voracemente, con ingordigia e in abbondanza. Anche figurato, per indicare chi si procura guadagni, magari illeciti, attingendo a fonti diverse.
Il palmento è ognuna delle due macine del mulino ad acqua; il fatto di usarne addirittura il doppio sottolinea il concetto di voracità. mangiare a ufo
Farsi mantenere, mangiare senza pagare e senza dare nulla in cambio.
Var. : mangiare il pane a ufo
Altro sign. : Mangiare in abbondanza, fino alla completa sazietà.
mangiare coi piedi
Non sapere stare a tavola, mangiare in maniera ineducata, anche suscitando schifo negli altri commensali, come se invece delle posate si usassero i piedi.
mangiare come un bue
Mangiare moltissimo, in continuazione, come si presume faccia un bue.
Il detto nasce non solo dalla dimensione dei buoi ma anche dal fatto che questi animali sembrano mangiare senza interruzione. In realtà, trattandosi di ruminanti, tutti i bovini sono costretti a rimasticare a lungo lo stesso cibo già predigerito che ritorna alla bocca in virtù del loro stomaco particolare. mangiare come un grillo
Fig. : mangiare pochissimo, tanto quanto basterebbe a un grillo.
mangiare come un porco
Mangiare avidamente, con ingordigia e in grande quantità. Anche mangiare in maniera rumorosa o comunque maleducata, suscitando schifo negli altri commensali.
Var. : mangiare come un maiale
Altro sign. : Mangiare in maniera maleducata, sgraziatamente, suscitando schifo negli altri commensali.
mangiare come un re
Mangiare benissimo, gustare piatti prelibati quali si suppone siano quelli serviti alla tavola di un re.
Var. : mangiare da re; mangiare come un principe mangiare come uno scricciolo
Mangiare pochissimo, come si suppone possa mangiare lo scricciolo che è un ucecellino molto piccolo e dall’aspetto gracile.
mangiare come un uccellino
Mangiare pochissimo, come si suppone possa mangiare un uccellino.
In realtà gli uccelli hanno un forte fabbisogno di cibo, e questo a causa della loro digestione immediata e del continuo movimento. Il colibrì, ad esempio, deve mangiare diciotto volte il proprio peso. mangiare per due
Mangiare moltissimo, quanto basterebbe a due persone. Usato anche per alludere allo stato di gravidanza di una donna.
Deriva dalla falsa credenza popolare secondo la quale una gestante dovrebbe mangiare in quantità doppia per nutrire anche il feto. mangiarsi vivo qualcuno
Fig. : aggredire una persona, offenderla o attaccarla con grande violenza, in genere per ira o esasperazione, come a volerselo togliere di torno a costo di mangiarselo senza nemmeno prendersi il fastidio di ucciderlo.
Vedi la definizione di mangiare Vedi i sinonimi di mangiare Vedi le citazioni e frasi con mangiare
Chi sorride a denti stretti?
far morir dal ridere (morir dal ridere; crepare dal ridere; fare crepar dal ridere; scoppiare dal ridere), far ridere, far ridere i polli, far ridere i sassi (far ridere le pietre), far ridere il mondo, far ridere le panche, non farmi ridere!, ridere a denti stretti, ridere come un cavallo, ridere di cuore (ridere di gusto), ridere in faccia, ridere sotto i baffi, ridere verde, tutto da ridere far morir dal ridere
Essere molto divertente, oppure assurdo, incredibilie o spropositato. Anche in senso ironico.
L’espressione era diffusa già nell’antichità greca e latina, con varianti quali “andare in mille pezzi” di Seneca o “dissolversi” di Terenzio. Var. : morir dal ridere; crepare dal ridere; fare crepar dal ridere; scoppiare dal ridere far ridere
Parlare, agire o comportarsi in modo estremamente ridicolo, tanto da suscitare le risate altrui. Riferito a una cosa, essere talmente sciocca o di poco conto da non meritare nemmeno di essere presa in considerazione, come ad esempio nel caso di minacce talmente esagerate che “fanno ridere”. Di un lavoro o altro che va eseguito, essere molto semplice e facile.
far ridere i polli
Parlare, agire o comportarsi in modo estremamente ridicolo, tanto da costringere a ridere anche chi non ne avrebbe affatto voglia o chi non sarebbe nemmeno in grado di farlo, in questo caso i polli.
far ridere i sassi
Rendersi estremamente ridicoli, tanto da far ridere anche chi non è in grado di farlo, come appunto i sassi.
Var. : far ridere le pietre far ridere il mondo
Far ridere tutti, coprirsi di ridicolo in vari modi.
far ridere le panche
Rendersi involontariamente ridicoli, tant da far ridere non solo le persone ma perfino le panche sui cui stanno sedute.
Il detto è legato ai vecchi spettacoli di piazza, per i quali a volte venivano allestiti dei posti a sedere. Molti spettatori si portavano da sé sgabelli e seggiole, ma i girovaghi più furbi provvedevano a disporre essi stessi un certo numero di panche per attirare più pubblico.
Esclamazione: si usa nei confronti di qualcuno che dice stupidaggini, fa richieste inadeguate o racconta fatti incredibili. Esprime incredulità ma anche insofferenza e stizza.
ridere a denti stretti
Ridere malvolentieri, forzatamente, come stringendo i denti per sopportare meglio il fastidio di doverlo fare. farlo.
ridere come un cavallo
Ridere in maniera sgraziata, emettendo una specie di nitrito o mettendo in mostra tutti i denti, soprattutto se grandi e lunghi.
ridere di cuore
Ridere gustosamente, sinceramente, per qualcosa che diverte realmente.
Var. : ridere di gusto ridere in faccia
Ridere sfacciatamente di scherno, in genere di fronte a una proposta assurda o giudicata inadeguata.
ridere sotto i baffi
Sogghignare, sorridere di nascosto con malizia o segreto compiacimento, come nascondendo il movimento delle labbra sotto il pelo dei baffi.
ridere verde
Ridere forzatamente, senza averne affatto voglia poiché si è in realtà pieni di rabbia, d’impotenza, d’invidia e così via.
Il verde è il colore della bile, che si riteneva aumentasse di quantità sotto l’effetto dell’ira. tutto da ridere
Si usa in senso ironico nei confronti di qualcosa di poco serio, non attendibile, oppure ridicolo e assurdo.
Vedi la definizione di ridere Vedi i sinonimi di ridere
Chi ride sempre psicologia?
Le crisi gelastiche – Rappresentano un raro tipo di crisi epilettiche parziali con focolai in sede fronto-temporale, caratterizzate dalla produzione di riso stereotipato, non correlato al contesto. E’ una risata improvvisa, non scatenata da uno stimolo emotigeno e può essere accompagnata da disturbi del sistema nervoso autonomo e/o alterazioni dello stato di coscienza.
Cosa succede se si ride troppo?
Fisiopatologia – La morte può derivare da diverse patologie che si discostano dalle risate benigne. L’ infarto del ponte di Varolio e del midollo allungato possono causare risate patologiche. Le risate possono causare atonia e lipotimia, che possono causare traumi.
Cosa vuol dire l’espressione sarei a casa del diavolo?
In quanto istituto sociale, la lingua riflette la storia di un popolo, le sue tradizioni, il suo genio, ma anche, molto spesso, le sue paure. Non è un caso che siano tanti i modi di dire, le frasi fatte e i proverbi in cui fa la sua comparsa il diavolo, retaggio di una cultura millenaria, quella cristiano-cattolica, che non è mai stata confinata alla pura dimensione religiosa.
Ne diamo un piccolo saggio anche nella nostra rubrica: la sezione Angeli e demoni, infatti, si è aperta con l’articolo di Sergio Lubello dedicato a L’avvocato del diavolo, continua adesso con A casa del diavolo di Rocco Luigi Nichil, e proseguirà la prossima settimana con Il diavolo e l’acqua santa di Debora de Fazio.
Simpathy for the Devil? Si direbbe di sì, alla maniera dei Rolling Stones. Ora, però, se il diavolo non ci mette la coda, perché, com’è noto, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, saranno i lettori a decidere, attraverso la nostra pagina Facebook Per modo di dire.
Un anno di frasi fatte, l’espressione che chiuderà il tema del mese. Angeli o Demoni, dunque? A voi la scelta. Quel buon diavolo di Antonio Montinaro è già pronto a rispondere. Ha un diavolo per capello, ed è forse pronto a vendere l’anima al diavolo, perché sa che voi ne sapete una più del diavolo e probabilmente qualcuno ha il diavolo nell’ampolla,
Per tutti i diavoli!, basta così, scegliete senza condizionamenti: non vogliamo mica fare la parte del diavolo ! Se qualcuno dovesse mandarvi a casa del diavolo, preparatevi, perché la strada è lunga. L’espressione a casa del diavolo, infatti, indica un luogo molto lontano («Carletto trovò in quelle sere da cantare in un cine.
Era a casa del diavolo, oltre Dora un bel pezzo», Pavese 1949, p.106) o comunque difficile da raggiungere o da trovare («Gli altri, per portarli a casa, facevano dannare, scappavano lontano, bisognava andarli a ricercare a casa del diavolo», Palazzeschi 1927, p.171), ed è utilizzata talvolta, in chiave iperbolica, in chiusura di un elenco di luoghi («E se fossero terre italiane tutte quelle, in cui gli architetti italiani hanno lasciato segni del loro passaggio, dovremmo non fermarci al Brennero, ma arrivare a Vienna, a Cracovia, a Mosca, a casa del diavolo», Salvemini 1963, p.443).
Il diavolo nei dizionari Il modo di dire (trovarsi, essere, stare, abitare, andare ecc.) a casa del diavolo (anche venire da casa del diavolo), con il significato appena visto, era di certo diffuso nella seconda metà dell’Ottocento, come provano le locuzioni Stare a casa ‘l diavolo o del diavolo («dicesi con una certa impazienza di Chi abita assai lontano da noi: “Sta giù a casa del diavolo; guarda s’io posso andare tutti i giorni a visitarlo!”») e Venire di casa del diavolo («Venire di paese assai remoto, e che non si sa neanche dove sia: “O di dove tu vieni? da casa del diavolo?”»), che si leggono alla voce casa (p.313) del Vocabolario della lingua parlata di Rigutini e Fanfani (1875), e quelle che ancor prima Giuseppe Meini aveva registrato (come «Modi fam») nel Tommaseo-Bellini, a corredo della medesima voce («Esser di casa del diavolo, Stare a casa del diavolo.
valgono Essere di paese remoto, Stare di casa in luogo fuor di mano», vol. I, p.1265), pubblicata nella dispensa n.32 del 1864. Appena un anno dopo, anzi, un altro importante redattore dell’opera, Gaetano Valeriani, glossando un verso del poeta fiorentino Giovan Battista Fagiuoli (1732, p.206: «Benchè lontano, e a casa del Demonio»), giudicava l’espressione come «oramai da evitare» («Lontano e a casa del demonio.
Più com. A casa del diavolo, di grande distanza. Ma sim. modi sono oramai da evitare. E Casa del diavolo appropinquavit», vol. II, p.86; dispensa n.50). L’ammonimento, a dire il vero, non appare condiviso da Tommaseo, che alla voce diàvolo (vol. II, dispensa n.51, 1864) non solo registra «Stare, Essere a casa del diavolo», con il significato «di gran lontananza», ma riprende anche le espressioni «Andare a casa del diavolo, ovvero In bocca al diavolo» da Gherardini (vol.
II, p.527: «importa Dannarsi, Andare all’Inferno»), come questi le aveva tratte dall’Alberti (vol. II, p.248), precisando: «non solo dell’Essere dannato; ma, segnatam. il secondo de’ due modi, Essere in perdizione qualsiasi o in pericolo di male estremo; e il primo, dico A casa, Dell’andare lontano in luogo ignoto, o che si figura non buono e non bello».
«Anco di cose» si sostiene poi nel capoverso successivo, sulla scorta di un passo della satira settima di Jacopo Soldani («O se a casa del diavol seco andasse / L’affannato Tesor»), risalente alla prima metà del Seicento, ma qui citata – da Valeriani – dalla prima, tardissima, edizione a stampa del 1751 (p.193).
- Il medesimo riferimento ricorre alla voce casa della quinta impressione del Vocabolario della Crusca, a corredo della locuzione «Casa del diavolo, o al diavolo» (vol.
- II, p.617), per cui gli Accademici – come i già visti Alberti e Gherardini, e come pure il Tramater (vol.
- II, p.640), sempre alla voce diavolo – indicano come unico significato «l’Inferno» (equivalente, perciò, alle espressioni Casa Maledetta e Casa calda).
Non è difficile, tuttavia, scorgere il valore estensivo di ‘luogo lontano, ignoto, sgradevole’, sia nelle parole di Soldani, sia nel successivo esempio offerto dal repertorio, che rimanda alla commedia Gli allievi di vedove di Jacopo Nelli (composta verosimilmente al secondo decennio del Settecento): «Lo troverò, se fosse anche andato a cas’al diavolo» (Atto III, Scena XV, ma «Casaldiavolo» nella prima edizione dell’opera, vedi Nelli 1751, p.159).
Destinazione Oga Magoga Tra le locuzioni legate a casa, del resto, la Crusca registra (essere) «Di casa al diavolo, o del diavolo, e anche Di casa alla malora» (p.618), ma anche «Venire, o Essere, di casa del diavolo» (p.620), il primo in riferimento a persone («modo familiare che usiamo a significare che una persona è trista, strana, bestiale e simili», con la citazione di una lettera di Annibal Caro), il secondo a luoghi («modo familiare che vale Venire da paese remoto, il quale o non si conosca o si disprezzi», senza esempi, e, probabilmente, più moderno).
Ancora al nostro modo di dire rimanda anche la curiosa locuzione Andare in Oga Magoga («Modo basso, che vale Andare in luoghi molto lontani e pieni di pericolo, e anche Andare in perdizione, Andare a casa del Diavolo»), utilizzata da Lorenzo Lippi nel Malmantile racquistato – Cantare primo, stanza LII, vv.3-4: «E questa è la cagion, che là tra i lanzi / Da soldato n’andò in Oga Magoga», nell’edizione di Minucci (1688, p.42), ma «Goga magoga» in quella di Cinelli (1676, p.14) – e così spiegata nelle Note da Paolo Minucci (p.44), che richiama, tra l’altro, anche i Floris Italicae linguae (1604) di Angelo Monosini («Egli è ito a casa maledetta Praedicto simile iactatur a vulgo; Egli è ito in Oga Magoga», p.103): «Quand’uno va lontano dalla sua patria, dicono le nostre donne, Gli è andato in Oga magoga.
Ed intendono egli è andato a casa maladetta, nel qual senso è preso anche nella sacra scrittura; e S. Gio(vanni) nell’Apocalisse al 20. dice Og magog, & congregabit eos in proelium». Il passo, com’è noto, rievoca una profezia di Ezechiele, che ai capitoli XXXVIII-XXIX parla di Gog, del paese di Magòg, principe di Mesech e Tubal; di qui, la tradizione cristiana (come fece, per altra via, quella musulmana) identificò in Gog e Magog leggendarie popolazioni barbariche dell’Asia, che incombevano sulla civiltà occidentale come una perenne minaccia di annientamento (vedi Gog e Magog nell’Enciclopedia Treccani on line): non c’è dubbio, quindi, che andare in Oga Magoga (o in Goga Magoga) significasse raggiungere luoghi lontanissimi, sconosciuti e “infernali”, come può esserlo, per l’appunto, soltanto la casa del diavolo.
«Mundus totus in maligno positus est» Negli scrittori cristiani antichi e medievali domus diaboli è qualsiasi luogo in cui si avverte la presenza del diavolo, essenza assoluta del male: per Tertulliano (II-III sec.d.C.) è il carcere in cui sono rinchiusi i martiri a cui rivolge la propria esortazione («Domus quidem diaboli est et carcer, in qua familiam suam continet», Ad Martyres,PL I, 694; «La casa del diavolo è la carcere, e in questa egli raduna chi è familiare a lui, che è lo spirito del male» nella traduzione di Gino Mazzoni del 1929); nel Sermone LXXI di Sant’Agostino (354-430), gli uomini, in quanto peccatori ed empi, sono rinchiusi nella casa del diavolo e sono suoi strumenti (« peccatores atque impii; et ideo in domo diaboli, et vasa diaboli», De Verbis Evangelii Matthaei 12,32, PL XXXVIII, 446); nel Commento al Vangelo di Luca (II, 6, 154), Beda il Venerabile (672 o 673 – 735), riecheggiando la Prima lettera di Giovanni (5,19: «mundus totus in maligno positus est» ‘tutto il mondo giace sotto il maligno’) e soprattutto il commento di San Girolamo a Matteo 12,29 («Domus illius mundus, qui in maligno positus est, non creatoris dignitate, sed magnitudine delinquentis», PL XXVI, 80), afferma che il mondo, che giace sotto il potere del male, è chiamato “casa del diavolo” non perché da questi creato, ma per la vastità di chi cade in tentazione («Domus diaboli, mundus qui in maligno positus est, non creatoris dignitate, sed magnitudine delinquentis vocatur», PL XCII, 413); un secolo dopo, Rabano Mauro (780/784 – 856) definirà la domus diaboli «conventus omnium malorum» (‘unione di tutti i mali’; De universo, PL CXI, 389).
Per andare dove dobbiamo andare per dove dobbiamo andare? Nel medioevo, tuttavia, la locuzione casa del diavolo indica principalmente, per metonimia, l’Inferno della tradizione cristiana, «il quale è casa e prigione del diavolo» (Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante ). Se ne trova traccia nel Decameron (VIII, 7: «È il vero che l’amore il quale io vi porto è di tanta forza, che io non so come io mi nieghi cosa che voi vogliate che io faccia; e per ciò, se io ne dovessi per questo solo andare a casa del diavolo, sì son presto di farlo poi che vi piace»), citato dal TLIO alla voce diàvolo, e prima ancora nel volgarizzamento del De amore et dilectione Dei et proximi di Albertano da Brescia, opera di Andrea da Grosseto risalente al 1268 ( Trattato della Dilezione : « andiamo p(er) loro coll’anima (e) col corpo a casa del diavolo?», vedi Castellani 2012, p.303), e nell’ Esposizione del Paternostro, traduzione dal latino realizzata agli inizi del Trecento dal fiorentino Zucchero Bencivenni («e quello che debbono avere i poveri tu ‘l dai a’ ricchi, e a’ poveri non dai niente.
E questa è la via d’andare a casa del diavolo, la dove si rende merito di sì fatte cose», p.112), mentre nel Libro di varie storie di Antonio Pucci (1362) è attestata la variante a casa il diavolo (« l’anima se ne va a casa il diavolo», p.37; «Onde quegli andava e uccideva lietamente quel cotale, e s’egli ne moriva, s’aveva il danno e andava a casa il diavolo», p.49), che si ritrova anche – per chiudere il cerchio – nello stesso Boccaccio («siamo per giudicio di Dio gittati in casa il diavolo», Esposizioni sopra la Comedia di Dante, p.437).
Molti altri esempi si potrebbero fare per casa del diavolo con riferimento all’Inferno, sia ancora per il medioevo – tra questi, il Libro di Sidrach (traduzione anonima dal francese composta prima del 1383), il Trecentonovelle di Franco Sacchetti (novella LXVI) e Le prediche volgari di San Bernardino da Siena («io non voglio andare a casa del diavolo per l’anima tua», vol.
I, p.207) –, sia per i secoli successivi – ricordiamo almeno le prediche di Girolamo Savonarola del 1496, raccolte da Lorenzo Violi e pubblicate intorno al 1500, la nota lettera di Niccolò Machiavelli del 17 maggio 1521 indirizzata a Guicciardini e il sulfureo Pasquino in estasi di Celio Secondo Curione («Adunque tu affermi, che tutti i Papi sono a casa del diavolo», p.256): non è facile, però, definire con precisione il momento in cui l’espressione iniziò a indicare anche, più genericamente, un paese lontano e ignoto, difficile da raggiungere.
Così potrebbero essere interpretate nella Calandria del Bibbiena, rappresentata per la prima volta alla corte di Urbino nel 1513, le parole di Calandro, che vorrebbe picchiare la moglie fedifraga per poi non rivederla mai più («E, poi che l’arò tutta pesta, menatela a casa il diavolo, perché non voglio in casa questa vergogna», p.78): ma certo anche in questo caso si potrebbe trattare della consueta allusione alla morte e quindi all’Inferno.
In realtà, per quanto col tempo si sia affievolito il riferimento diretto all’oltretomba, appare persino infruttuoso cercare di distinguere in compartimenti stagni i due significati, giacché essere ( stare, trovarsi, abitare, andare) a casa del diavolo indica essere in un luogo particolarmente impervio, che ancor oggi rimanda, almeno metaforicamente, all’Inferno, allo stesso modo per cui mandare qualcuno a casa del diavolo (‘levarselo dai piedi con male parole’, GDLI, s.v.
diavolo ), al pari di mandarlo al diavolo o all’Inferno o a quel paese, significa anche, consapevolmente o meno, augurargli ogni male, finanche la morte. «Ma fai rumore, sì » A casa del diavolo, ancora con riferimento all’inferno, compare anche nel romanzo I Malavoglia di Giovanni Verga (1881), in un capitolo (il quarto) in cui nel giro di poche righe fa più volte la sua comparsa il diavolo, sempre in relazione a zio Crocifisso, l’usuraio del paese: «Egli era un buon diavolaccio» (p.57), che comprava al ribasso e con frode la pesca di qualche «povero diavolo» che «aveva bisogno subito di denari» (p.58), e quando dava una sua imbarcazione “a credenza” «finiva che la barca si mangiava tutto il guadagno, tanto che la chiamavano la barca del diavolo» (p.59); dopo il naufragio della Provvidenza e la perdita del suo carico, «i suoi nemici gli ridevano sotto il naso, a motivo di quei lupini che se l’era mangiati il diavolo» ( ivi ), «ma santo diavolone! padron ‘Ntoni sarebbe andato in galera!» (p.60), se non avesse restituito il suo prestito, avverte il narratore, e zio Crocifisso conclude «Coi Malavoglia sto tranquillo perché son galantuomini e non vorranno lasciar compare Bastianazzo a casa del diavolo» (p.61).
I Malavoglia documentano, tra l’altro, anche l’uso dell’espressione idiomatica fare un casa del diavolo, anche come locuzione nominale ( un casa del diavolo ), con il valore di ‘grande baccano, trambusto’: «A Catania c’era un casa del diavolo!» (p.197); « spesso la sera, quando l’osteria era già chiusa, si udiva un casa del diavolo dietro la porta» (p.256); «Una volta inventarono di fare la serenata allo zio Crocifisso, la notte in cui s’era maritato colla Vespa, e condussero sotto le finestre di lui tutti coloro cui lo zio Crocifisso non voleva prestare più un soldo, coi cocci, e le pentole fesse, i campanacci del beccaio e gli zufoli di canna, a fare il baccano e un casa del diavolo sino a mezzanotte» (p.357).
Si tratta di un significato oggi pressoché scomparso, ma attestato almeno a partire dalla fine del Settecento («Un rumore, un chiaffo, un casa del Diavolo orribile riempie allora il luogo, in cui si pranzava», lettera di Giuseppe Compagnoni del 15 settembre 1790, in Compagnoni/Albergati 1791, p.169), e abbastanza diffuso nel secolo successivo, come provano, ad esempio, le ben 10 occorrenze di fare un casa del diavolo rintracciabili nel Mastro-don Gesualdo (1889), sempre di Verga.
Particolarmente interessante, poi, il sostantivo casaldiavolo (da casa ‘l diavolo ), di certo non raro, utilizzato con il medesimo significato (‘baraonda, pandemonio, putiferio’, GDLI, Suppl.2009, s.v.): «Mentre il canuto sacerdote e quel cervello bizzarro discorrevano cosi alla buona, gli altri facevano un frastonio, un casaldiavolo da portarne stordito il capo per qualche giorno» (Conti 1858, vol.
II, p.147); «Fu un fuggi fuggi generale, un momento più indiavolato ancora in quel casaldiavolo» ( Lettere romane. La Befana, in «Corriere della Sera», 8.1.1877, p.1); «Un casaldiavolo, una bolgia infernale, un buscherìo» (Valera 1879, p.234). All’inferno o in paradiso? Per ultimo, vogliamo ricordare, in particolare a chi dovesse trovare difficoltà ad andare a casa del diavolo, che ci si può sempre recare, in alternativa, a casa di Dio, locuzione che designa, in senso figurato, «un posto lontanissimo, scomodo o difficile raggiungere, così come si suppone difficile raggiungere il Paradiso, che è la casa di Dio» (Quartu/Rossi 2012; abitare a casa del diavolo, abitare a casa di Dio ‘abitare in un posto molto lontano e disagevole da raggiungere’, Turrini et alii 1995, 10).
Basta scegliere, insomma, in quale direzione muoversi, preferendo il clima mite del Paradiso o piuttosto la vasta compagnia dell’Inferno. A proposito, l’aforisma non è di Oscar Wilde, né di Mark Twain: ma questa è un’altra storia, come si dice, e ripercorrerla ci porterebbe troppo lontano.
Almeno fino a casa del diavolo, Repertori lessicografici Francesco Alberti di Villanova, Dizionario universale critico, enciclopedico della lingua italiana, Lucca, dalla stamperia di Domenico Marescandoli, 1797-1805, 6 voll. Bernardino da Siena, Prediche volgari sul Campo di Siena (1427), a cura di Carlo Delcomo, 2 voll., Milano, 1989.
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Il ciclo Per modo di dire. Un anno di frasi fatte è curato da Alessandro Aresti, Debora de Fazio, Antonio Montinaro, Rocco Luigi Nichil, Rosa Piro, Lucilla Pizzoli, Di seguito, l’elenco degli articoli già pubblicati. Per iniziare Lucilla Pizzoli, Colorare i discorsi Alessandro Aresti, Attaccare (un) bottone Rosa Piro, Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare Antonio Montinaro, Rompere il ghiaccio Rocco Luigi Nichil, E quindi uscimmo a riveder le stelle.
Sul motto latino Per aspera ad astra (e non solo) Citazioni d’autore Debora de Fazio, Elementare, Watson! Lucilla Pizzoli, Essere un carneade Giorgio Marrapodi, Armata Brancaleone. Dal film alla lingua comune Rocco Luigi Nichil, C’è del marcio in Danimarca (e non solo lì) Echi danteschi Alessandro Aresti, Non ragioniam di lor, ma guarda e passa Pierluigi Ortolano, Stai fresco! Antonio Montinaro, Galeotto fu il libro Debora de Fazio, Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate Fiabe e favole Rosa Piro, Fare la mosca cocchiera Lucilla Pizzoli, Brutto anatroccolo Giulio Vaccaro, Avere la coda di paglia Rocco Luigi Nichil, La volpe e l’uva Rocco Luigi Nichil, La volpe, le ciliegie e altro ancora Animali Alessandro Aresti, Menare il can per l’aia Antonio Montinaro, Salto della quaglia Marcello Aprile, Avere, dare, prendere la scimmia Rosa Piro, Grilli per la testa Colori Lucilla Pizzoli, Essere al verde Debora de Fazio, Passare una notte in bianco Alessandro Aresti, Avere una fifa blu Numeri Paolo Rondinelli e Antonio Vinciguerra, Chi fa da sé fa per tre? Quando i proverbi “danno i numeri” Luigi Matt, È un quarantotto (e altre quarantottate) Antonio Montinaro, Prendere due piccioni con una fava Lucilla Pizzoli, Dirne quattro (ma anche un po’ di più) Attribuzioni antonomastiche Maria Antonietta Epifani, Paganini non ripete Rosa Piro, La vittoria di Pirro Debora de Fazio, Tallone d’Achille Antonio Montinaro, Essere il/fare il Pigmalione Parti del corpo Pierpaolo Lala, Mani pulite Rosa Piro, Lavarsene le mani Rocco Luigi Nichil, Faccia da schiaffi e d’altro tipo Alessandro Aresti, Fare (il) piedino Angeli e Demoni Sergio Lubello, Anche i diavoli hanno i loro avvocati.
Perché alle donne piace l’uomo con la barba?
Unisce universo maschile e femminile anche un progetto molto importante, che sta portando avanti il brand Gillette – George Clooney IL BELLO SECONDO LE DONNE – L’uomo con la barba ispira protezione e affidabilità. Viene percepito come maturo, responsabile, pronto a una relazione stabile,
- Simbolo di una mascolinità accentuata, la barba di conseguenza rende anche più affascinanti e sexy,
- Va sempre, ovviamente, curata meticolosamente e regolata nelle lunghezze, altrimenti trasmette – al contrario – trascuratezza, sciatteria, poca propensione all’igiene personale.
- IL MEGLIO DEGLI UOMINI – Unisce universo maschile e femminile anche un’iniziativa molto importante che sta portando avanti Gillette, che sprona da sempre a far emergere “il meglio di un uomo”.
Con la partita di calcio ” Bomber vs King “, in programma a Roma il 20 maggio prossimo presso lo Stadio dei Marmi (a porte chiuse), farà scendere in campo volti noti del mondo del calcio (con la squadra dei Bomber, i rasati, capitanata da Bobo Vieri e la squadra dei King, con la barba, capitanata da Daniele De Rossi) per dare ufficialmente il via al suo progetto in difesa delle donne che hanno subìto violenza, Ufficio stampa Il progetto sostiene la Fondazione Doppia Difesa, costituita nel 2007 da Michelle Hunziker e Giulia Bongiorno e da allora al fianco delle donne vittime di violenza, e l’iniziativa di inclusione lavorativa “Aula 162” promossa dall’Associazione Next con il supporto di Procter & Gamble e parte del programma di cittadinanza d’impresa “P&G per l’Italia”.
Che cosa significa a dispetto di?
Significato Azione volta a infastidire qualcuno; irritazione; indifferenza, sdegno Etimologia dal latino despectus disprezzo, participio passato di despicere guardare dall’alto in basso, composto di de verso il basso e spicio guardo. Questa parola nasce con un significato molto più intenso di quello che veste solitamente oggi.
- Infatti il dispetto ha, come significato originario, quello di disprezzo superbo, e più concretamente di offesa.
- Adesso l’onda lunga di questo senso resta in espressioni come “a dispetto di”, che pur valendo come un “nonostante”, trasmette con grande forza un’indifferenza colorata di sdegno.
- A esempio, posso partecipare alla gara a dispetto dei moniti del medico.
Il significato più comune di questa parola è oggi l’azione che ha come unico fine quello di infastidire qualcuno: certo non è un’azione rispettosa, ma il dispetto è una malignità fanciullesca, che non ha nulla a che vedere con un attacco serio e maturo.
I bambini si fanno dispetti per darsi noia, e per dispetto il burocrate scorda la nostra pratica. Per estensione, dispetto passa anche a significare un sentimento di irritazione e stizza: si può provare dispetto per la vittoria altrui, o avere dispetto del fatto che l’ex ha portato con sé la nuova ragazza.
Il percorso di questa parola è interessante e bello: lo spregio e l’offesa vengono qui ridimensionati in un paradigma di invidia e fastidio, tanto da rendere ridicola l’immagine etimologica di una superbia che guarda dall’alto in basso.
Cosa significa ridere a squarciagola?
Di squarciare e gola]. – Nella locuz. avv. a squarciagola, in espressioni come gridare, urlare, cantare a squarciagola, con tutta la forza della voce, quasi fino a squarciare la gola.
Che significa ridere mentre dormi?
Nella fase tra la veglia e il sonno si passa da una fase in cui e’ attivo il controllo razionale sul proprio pensiero ad una fase in cui tale controllo cessa di agire. E’ una fase detta di ‘allucinazione ipnagogica’. Puo accadere di sentirsi cadere nel vuoto o nel suo caso ridere.
Quando ridere fa bene?
Il potere della risata, aiuta anche a guarire la mente e il corpo – Salute & Benessere ”La salute si basa sulla felicità”: su questo assunto il celeberrimo medico statunitense e padre della clownterapia Patch Adams ha fondato il suo metodo terapeutico, una combinazione vincente di umorismo e divertimento quali ingredienti essenziali per la guarigione fisica e mentale del paziente.
Ad oggi è convinzione comune degli esperti che la cosiddetta “Terapia del Sorriso” sia non solo in grado di aiutare i malati a vivere meglio la loro patologia, ma apporti anche notevoli benefici a livello di respirazione, ossigenazione, circolazione, nonché di riduzione dello stress e degli stati ansiogeni.
Per gli scienziati di tutto il mondo, ridere fa davvero vivere meglio e rappresenta la più semplice ed economica via per il benessere, sia fisico o mentale, nella vita come nel lavoro. Sono molteplici infatti i benefici sul corpo e sulla mente di una risata: migliora la circolazione del sangue, aiuta a prevenire le malattie cardiovascolari, tiene il cervello allenato, contrasta ansia e depressione e contribuisce alla salute del sistema immunitario.
- Ma soprattutto, migliora il rapporto con gli altri e con se stessi, influenzando positivamente le relazioni a livello privato e, soprattutto, lavorativo.
- Basti pensare che gli studiosi della St.
- Edwards University di Austin, in Texas, conducendo uno studio su 2500 impiegati, hanno scoperto che l’81% si dichiara maggiormente produttivo se inserito in un contesto lavorativo dove regna il buonumore.
Uno studio della Mayo Foundation for Medical Education and Research, riportato da Huffington Post, ha rivelato che ridere riduce drasticamente gli ormoni dello stress: il cortisolo del 39%, l’epinefrina del 70% e la dopamina del 38%. Allo stesso modo un’indagine della Loma Linda University, in California, riportata da Nature, ha evidenziato come, alla vista di un video comico, le beta-endorfine, che alleviano la depressione, aumentino del 27%.
In occasione della Giornata Mondiale della Risata del 7 maggio 2017, lo psicologo e psicoterapeuta Stefano Lagona, responsabile scientifico del corso di Formazione a Distanza di Educazione Continua in Medicina, in partnership con Consulcesi Club, ha realizzato il corso “La terapia del sorriso: efficacia ed applicazione nei contesti di cura”.
Sono molti i benefici: la risata riduce lo stress, aiuta sul lavoro favorendo la relazione con i colleghi, il lavoro di gruppo, la leadership e le capacità di problem solving, rafforza le relazioni interpersonali ma stimola anche il sistema immunitario: numerosi studi hanno dimostrato che le emozioni positive favoriscono la produzione di una cascata di reazioni tale da attivare il sistema immunitario ed in particolare i linfociti killer.
Inoltre fa rilasciare endorfine, gli “ormoni della felicità”. Lo studio dell’importanza dell’umorismo e della risata sulla salute ha origini lontane, infatti già Ippocrate sosteneva: «Il buonumore equivale a un elisir di lunga vita»; comunque, la paternità della terapia del sorriso viene attribuita al giornalista scientifico Norman Cousin, il quale sperimentò su di sé gli effetti terapeutici della risata e il loro potenziale nel favorire il decorso della malattia.
Questo approccio riunisce tecniche e metodologie diverse: dalla più famosa clownterapia, passando per lo yoga della risata, la visione di filmati e spettacoli fino alla partecipazione attiva alla comicità. La terapia del sorriso trova il suo luogo naturale nei reparti pediatrici ma non è destinata solo ai bambini: gli stessi clown-dottori sono frequenti anche in oncologia e geriatria nonché nelle scuole, nelle missioni umanitarie e nelle carceri.
“È un toccasana, soprattutto negli ambienti lavorativi ad alto livello di stress – spiega Marina Osnaghi, prima Master Certified Coach in Italia, che utilizza spesso questa modalità nei propri corsi dedicati ai Leader per potenziare capacità di resilienza e velocità di risoluzione delle soglie critiche di stress – Superato il primo momento di imbarazzo nell’esperienza di una risata ‘intenzionale e decongestionante’, le persone si lasciano andare.
Il ‘gesto’ del ridere dona una ventata di aria fresca al cervello e in un istante gli approcci tra colleghi cambiano e svanisce il pessimismo. Si mette in atto un processo che impatta sulle funzioni ormonali: il corpo agisce sulla mente attraverso una nuova attitudine comportamentale.
Ridere, anche senza motivo, è parte integrante dei corsi di destressamento: bisogna imparare a ridere superando la paura di sembrare strani e uscendo così dagli schemi di monotonia, aggressività o pessimismo, dalla propensione a incanalare dovere e responsabilità in un approccio severo e senza sorriso.
Ridere in libertà è un vero toccasana, per il corpo e per l’umore. Il mio consiglio è di scegliere di ridere, sempre, soprattutto nei momenti di maggiore stress, quando sembra impossibile e faticoso farlo. Anche sul luogo di lavoro. L’abitudine alla risata renderà tutto più semplice: ridere per il solo gusto di ridere favorisce la capacità di trovare nuove idee per uscire dal ristagno dei comportamenti obbligati.
Perché si ride nei momenti seri?
Salve ho 30 anni e ho un problema abbastanza fastidioso. Rido nei momenti in cui non c’è niente da ridere, anzi, e quando parlo di cose serie che mi colpiscono anche profondamente, lo dico sorridendo. Durante il funerale di mio nonno, l’unico a cui ero affezionata, ridevo.
Ovviamente cercavo di trattenere ma non ci riuscivo!! ! Era terribile perché si vedeva. oppure studiando al policlinico una dottoressa, sempre perché ridevo in ambulatorio mi ha cacciato e mentre mi sgridava, io avevo il sorriso stampato in faccia. Oggi mio figlio ha dato una testata, all’inizio mi ha fatto ovviamente tenerezza e stavo quasi per piangere perché mi ha fatto pena, era felice e poi subito dopo si è fatto male, sono passata da quasi alle lacrime a ridere, non riuscivo a smettere, avevo le lacrime agli occhi era più forte di me.
ma perché mi succede? È una risata involontaria. Grazie. Dr.ssa Silvia Greco Psicologo 135 2 10 Carissimo Utente può succedere in alcune soggetti che il sorriso o risata involontari, incontrollati e inconsapevoli avvengano in momenti di disagio, tensione o ansia. Pertanto essa viene ritenuta una risposta inconscia del nostro corpo davanti a quella situazione.una sorta di “fuga”.
Qual’è l’erba che fa ridere?
LAUGHING BUDDHA – Come si può dedurre dal suo nome, la Laughing Buddha agisce sui fumatori di cannabis provocando effetti rilassanti e sensazioni inebrianti capaci di risollevare l’umore e di far scoppiare incontrollabili risate. Questa varietà è un ibrido a predominanza Sativa per un 20% Indica e per un 80% sativa.
- È proprio grazie al contenuto di geni Sativa se la Laughing Buddha induce effetti euforici capaci di far esplodere risate incontrollabili.
- Una varietà che offre sensazioni cerebrali che stimolano la lucidità mentale.
- La sua potenza ed efficacia è stata ulteriormente confermata con il primo premio ad una Cannabis Cup.
Gli aromi di terra, erba e salvia della Laughing Buddha rilassando i fumatori immergendoli in uno stato di puro benessere, mentre la genetica Sativa agisce sul cervello inebriando e rendendo più creativi, facendo apprezzare gli aspetti più ironici della vita.
Perché noi ridiamo?
Perché ridiamo? – È un modo per dimostrare che apparteniamo a un gruppo sociale, che capiamo le persone e che siamo in sintonia con loro. Soprattutto, ridere è uno dei sistemi con cui gestiamo i nostri rapporti con gli altri. leggi Omero descrive la risata degli Dei come «l’esuberanza della loro gioia celestiale dopo il banchetto quotidiano».
Ridere è uno straordinario regolatore di emozioni: un comportamento antico che ci permette di sintonizzare il nostro stato d’animo con quello degli altri. Voi quando ridete? Quando guardate Crozza? Anche se siete soli? La probabilità di ridere è del 30% superiore se siete è in compagnia. A provocare la risata infatti non è tanto il contenuto dello scherzo, quanto un istinto sociale a dimostrare agli altri che avete compreso lo scherzo e che siete d’accordo.
Chi ride con voi è un vostro alleato. Chi ride di cose che non vi fanno ridere è difficile che diventi vostro amico. Vogliamo far parte di quella risata, È un modo per dimostrare che apparteniamo allo stesso gruppo sociale, che capiamo le persone e che siamo in sintonia con loro.
- Soprattutto è uno dei sistemi con cui gestiamo i nostri rapporti con gli altri.
- Una coppia che riesce a sorridere in un momento di stress o di difficoltà “livella” insieme le emozioni.
- Ridere aiuta a stare meglio insieme, a ridurre l’imbarazzo e la tensione.
- Anche gli altri animali ridono : primati come gli scimpanzé, i gorilla, gli oranghi, e perfino i ratti sghignazzano, per così dire, quando stanno insieme, per il solletico o per gioco.
È un risultato dell’evoluzione che condividiamo con altre specie: una funzione che rafforza i legami sociali e ci fa sentire meglio. Non ci sono culture in cui non si ride mai. È un’emozione di base, comune a tutti gli esseri umani. Ci sono culture dove si ride più in privato e meno in pubblico, ma tutti lo fanno (con l’eccezione di persone con malattie mentali in cui i circuiti del ridere sono alterati).
- Che cosa succede dentro di noi quando ridiamo? Sophie Scott, neurobiologa all’University College London, dice che facciamo qualcosa di simile a respirare o parlare: buttiamo fuori aria dalla cassa toracica tramite contrazioni dei muscoli intercostali.
- L’intensità e il ritmo delle contrazioni sono però più intensi nel ridere rispetto a respirare e parlare.
In una risata spontanea e sonora, l’aria è spremuta fuori ad alta pressione, il che ne produce il suono inconfondibile. Ci sono almeno due maniere di ridere, «Una risata genuina, una vera esplosione di gioia sono generate da muscoli e da percorsi neurali diversi rispetto a quelli attivi nella cosiddetta risata volitiva – ha scritto la giornalista Kate Murphy, nell’articolo ” The Fake Laugh ” sul New York Times – Si sente la differenza fra il rumore di un’incontenibile risata di pancia di chi risponde a qualcosa di veramente divertente e quello di un più gutturale “ah ah ah”, che potrebbe indicare consenso, o di un nasale “eh eh eh” di chi magari si sente a disagio».
Anche gli scimpanzé ridono diversamente per il solletico, che provoca una risata involontaria, rispetto a quando lo fanno in una situazione sociale. « Una risata finta contiene più suoni tipici del parlato perché è prodotta dalle aree del linguaggio », ha detto Greg Bryant, uno scienziato cognitivo dell’Università della California a Los Angeles.
«C’è anche una notevole differenza in come ci si sente dopo una risata genuina – continua Murphy -. Si liberano endorfine che causano una leggera euforia e, secondo le ricerche, aumentano la tolleranza al dolore. La falsa risata non produce la stessa sensazione di benessere.
- Al contrario uno si sente un po’ prosciugato dal dover fingere».
- Anche la risposta cerebrale a una risata volontaria è diversa da quella a una spontanea.
- Nel primo caso si attivano le aree del cervello dedicate alla mentalizzazione e al linguaggio.
- In pratica il cervello si chiede: perché questa persona sta ridendo? Che cosa vuol dire? La risata involontaria è invece associata all’ipotalamo e al rilascio di ormoni.
Come fa una risata a ridurre lo stress ? Una risata spontanea causa una piccola iniezione di endorfina, perché è prodotta da un esercizio fisico sui muscoli interni, incluso il cuore. Ridendo si riempiono e si svuotano i polmoni, si ossigena il sangue, si riducono gli ormoni dello stress come l’adrenalina e il cortisolo, ci si sente più rilassati ed energici.
Si è anche meno timidi, imbarazzati, ansiosi e più sicuri di sé. Da qualche tempo va di moda un tipo di yoga, lo yoga della risata e a modo di vedere di alcuni insegnanti, ridere per un minuto può valere, per il cuore, come stare su un vogatore per 10 minuti. https://youtu.be/UxLRv0FEndM Sophie Scott, neurobiologa, in una TED Conferenze dal titolo: “Perché ridiamo?” I bambini ridono in continuazione,
È una misura del piacere che provano, della loro felicità e del divertimento. È un segnale sociale rivolto agli altri. È l’opposto del piangere. Un bambino che piange ti sta dicendo: “Per favore, smetti di fare questo”. Un bambino che ride dice: “Per favore, continua!”.
- Ridere è un invito a giocare: un modo di mettere l’interazione su un piano non minaccioso, gradevole, divertente e godibile.
- Che cosa fa ridere i bambini? Secondo Caspar Addyman, scienziato dello sviluppo cognitivo all’University of London, i bambini ridono delle altre persone, degli “errori” che fanno, e poi per il solletico, solo però se è fatto da una persona conosciuta e fidata, altrimenti è uno stimolo che intimidisce.
Charles Darwin aveva notato, in L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, che per ridere del solletico «la mente deve essere in una condizione di piacere; un bambino piccolo, se solleticato da un uomo dall’aspetto strano, urlerebbe dalla paura». Caspar Addyman, scienziato dello sviluppo cognitivo all’University of London Si ride da subito, senza sapere perché, Attorno ai 3-4 anni i bambini iniziano a ridere in modo più consapevole per esempio quando colgono le parole sbagliate dette da un adulto.
Per capire scherzi, battute, giochi di parole servono almeno 6-7 anni. Come impariamo a distinguere le risate vere da quelle finte ? È un processo di apprendimento precoce ma lento. Da piccoli non siamo affatto bravi! L’importante, da giovanissimi, è partecipare alla risata, qualunque sia il significato.
Più invecchiamo e meno sono le cose che ci fanno ridere. Diventiamo burberi? Certamente, ma siamo anche meno ingenui: distinguiamo meglio le vere intenzioni dietro una risata. Tutti ridono, pochi sanno fare ridere, Il senso dell’umorismo è una funzione sottile che varia da persona a persona.
- Molti studiosi, fra cui Kant, hanno tentato di elaborare una teoria dell’umorismo con scarso successo.
- Non è chiaro che cosa faccia ridere.
- Fra le ipotesi: cogliere parole ambigue, doppi sensi, comportamenti abituali rovesciati, sottintesi, incongruità, riferimenti al sesso o ad altri argomenti imbarazzanti, e restituirli in maniera fulminea a chi ascolta.
Perché sia condiviso, l’humour è strettamente legato alla lingua, alla cultura, al momento, al luogo: un insieme di ragioni per cui la comicità è fra le cose meno universali e traducibili al mondo. Un robot può imparare a far ridere? Non è detto, almeno per ora.
Per istruire un robot a fare qualcosa, abbiamo bisogno di una teoria che descriva una funzione in modo ripetibile strutturato. L’umorismo è l’opposto: una situazione ci fa ridere perché introduce qualcosa di inaspettato, imprevedibile, inedito, possibilmente irripetibile. Si può però istruire un software a inventare semplici giochi di parole dove è riconoscibile una struttura.
Il professor Graeme Ritchie, linguista dell’università scozzese di Aberdeen, con alcuni colleghi è riuscito a istruire un robot a inventare una freddura : “What kind of tree is nauseated? A sick-amore!” La battuta però non è proprio folgorante (“Che tipo di albero soffre la nausea? Il sicomoro”) e si capisce solo in inglese, dove avere nausea si dice “feeling sick”.
Insomma, i robot per ora non sono capaci di far ridere. Un computer può riconoscere quando stiamo scherzando? Pensate a tutte le battute che vi siete persi È difficile per noi umani, figuratevi per un software. Avete provato a scherzare con Siri? Zero senso dell’umorismo! La mancanza di umorismo è una delle ragioni per cui le interazioni uomo-macchina sono particolarmente faticose.
Ma il contrario potrebbe essere imbarazzante: immaginate di trovarvi in una stanza piena di computer che ridono di voi O in compagnia di un iPad che sghignazza tutte le volte che vi fate un selfie! Hal interpretato da Siri in una parodia di “2001: Odissea nello spazio” Per scrivere questo post ho ascoltato il podcast ” The science of laughter ” su Naked Scientist (17/1/17) e la TED Conference di Sophie Scott ” Why we laugh “; ho letto l’articolo di Kate Murphy, ” The Fake Laugh “, New York Times (23/10/17) e parte del capitolo 8 di Charles Darwin, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, Boringhieri (2012),
Che cosa vuol dire ridere a fior di labbra?
labbro in Vocabolario labbro (ant. e poet. labro ) s.m. (pl. le labbra, femm., nel sign. anatomico; labbri, masch., nei sign. analogici). – 1.a. Ciascuna delle due pieghe muscolo-membranose, mobili, che nell’uomo e negli altri mammiferi costituiscono la parete anteriore della bocca ricoprendo le due arcate dentarie, con la principale funzione di aprire e chiudere la rima orale, facilitando così il movimento respiratorio, e consentendo la presa del cibo e delle bevande e, nell’uomo, l’articolazione dei suoni del linguaggio.
Con partic. riferimento all’uomo: labbra sottili, grosse, sporgenti, tumide, carnose, pallide, rosse ; poet., labbra di corallo ; avere il l, cascante, penzolante (s’intende quello inferiore); l, leporino, malformazione congenita consistente in una divisione più o meno accentuata del labbro superiore (v.
cheiloschisi ); labbra di tapiro, particolare conformazione delle labbra (bocca semiaperta, labbro inferiore abbassato, superiore sporgente) che si osserva in alcune miopatie; aprire, chiudere, stringere, serrare le l,; inumidirsi, bagnarsi le l,; leccarsi le l,, anche in senso fig., per indicare la squisitezza di un cibo o di una bevanda: un manicaretto da leccarsi le l,; letter., increspar le l,
a un sorriso, accennare a sorridere; arricciare le l,, incresparle spingendole in fuori, per esprimere dubbio, disapprovazione, meraviglia o anche soddisfazione; mordersi le l,, come atto d’ira o di dispetto, o nello sforzo che si fa per trattenersi dal parlare o dal ridere.b. In alcune frasi che si riferiscono all’atto del mangiare, del bere, o al parlare, labbro (e labbra ) indica in genere la bocca, e nell’uso i due vocaboli si alternano: accostare le l,
al bicchiere, alla tazza ; portare il cibo alle l,; rimanere a l, asciutte (più com. a bocca asciutta ); non ho mai sentito una bugia dalle sue l,; dal suo l, non uscì mai un lamento, una parola offensiva ; a quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle l,
più parole del bisogno (Manzoni); il suo l, non ha mai proferito una bestemmia ; morire col nome di una persona sulle l,; quello che ha in cuore ha sulle l,, di persona sincera. Soltanto labbra nelle frasi seguenti: pendere dalle l, di uno, ascoltarlo attentamente; avere un nome sulle l, (più pop.
sulla punta della lingua ), essere sul punto di dirlo, o non ricordarselo sul momento; a quella vista, le parole che stava per dire gli morirono sulle l,, non osò più proferirle; quella parola gli bruciava le l, (si tratteneva a stento dal dirla). A fior di labbro o di labbra, a mezza bocca, accennando appena: elogi, complimenti, scuse a fior di labbro, espressi quasi per forza; fece un risolino a fior di labbro,2.
Per estens.: a. In zoologia, nome dato a due parti dell’apparato boccale degli insetti: il labbro superiore (lat. scient. labrum ), che delimita superiormente la bocca e può essere articolato, e il labbro inferiore ( labium, anche in forma italianizzata: v. labio ).b. In anatomia, al plur., parte degli organi genitali esterni femminili, distinta in piccole e grandi l,, omologhe dello scroto maschile.c.
In embriologia, l, del blastoporo o l, blastoporale, l’orlo della cavità attraverso cui le cellule localizzate sulla superficie esterna della blastula si invaginano a costituire lo strato di rivestimento dell’ archenteron o intestino primitivo,3. Usi analogici: a.
- In botanica, una delle due parti in cui è diviso il lembo nei calici, corolle o perigonî gamofilli, zigomorfi.b.
- Margine rilevato: i l,
- D’una ferita ; il l,
- Dell’acetabolo,c.
- Orlo rilevato e tondeggiante: il l,
- Di un vaso, di una tazza,
- In architettura si dà talora il nome di labbro al ciglio superiore di recipienti marmorei, quali le vasche delle fontane e dei fonti battesimali, le arche funerarie, o di analoghe strutture, come il parapetto o «vera» dei pozzi.d.
In geologia, ciascuna delle due pareti di una faglia.e. In legatoria, sovrabbondanza di carta che esce, nel taglio anteriore, dalla misura normale del libro intonso, specialmente se stampato su carta a mano.4. Labbro di Venere : nome tosc. della pianta cardo dei lanaioli,5.
Labbri d’asino : nome tosc. di varie piante del genere verbasco. ◆ Dim. e vezz. labbrétto, labbrino, labbrettino ; vezz. labbruzzo (di bimbo, o anche di donna che abbia bocca piccola e graziosa), labbrùccio ; accr. labbróne (v.); pegg. labbràccio (labbro grasso e deforme). Nel plur., si usano tutti al masch.: labbretti, labbrini, labbruzzi, ecc.
: labbro in Vocabolario
Cosa significa da leccarsi i baffi?
leccare in Vocabolario leccare v. tr. ( io lécco, tu lécchi, ecc.). – 1. Far scorrere la lingua sopra qualche cosa, o per inumidirla o per assorbire ciò che vi è sopra o per altro motivo: l, un francobollo, il margine gommato di una busta ; si dice per lo più di animali: il cane leccava la scodella ; il gatto si leccava il pelo ; di fuor trasse La lingua, come bue che ‘l naso lecchi (Dante); prov., al can che lecca cenere, non gli fidar farina,
Dell’uomo, oltre che in espressioni volgari, è com. nelle frasi leccarsi le dita, i baffi, le labbra, usate in senso proprio o per esprimere il piacere procurato da un cibo gustoso e saporito: gli preparò un manicaretto da leccarsi le dita (per estens., anche d’altre cose, non commestibili, che tornino di pieno gradimento).
Per estens., non com., racimolare qualcosa da mangiare: non guadagnando, ricorrea alcuna volta alle nozze, dove pure alcuna cosa leccava (Sacchetti).2. estens., non com. Lambire, toccare leggermente: le fiamme leccavano il soffitto,3. fig.a. spreg. Adulare in modo basso e servile: gli piace essere leccato ; ha fatto carriera a furia di l,
i superiori ; con lo stesso sign., e più spreg., l, i piedi, le scarpe, gli stivali, e volg.l, il culo a qualcuno,b. Riferito, come compl. oggetto, a scritti, opere d’arte e sim., curare con eccessiva diligenza (cfr. lisciare ): non ha ancora smesso di l, quel suo quadro, Nel rifl., lisciarsi, rivolgere gran cura alla persona per farsi bello: è più di un’ora che si sta leccando davanti allo specchio,
◆ Part. pass. leccato, anche come agg. (v. la voce). : leccare in Vocabolario
Chi fa ridere come si chiama?
Cómico: approfondimenti in ‘Sinonimi_e_Contrari’ – Treccani.
Che significa leccarsi i baffi?
E’ ormai d’uso comune il dire leccarsi i baffi indicando una sensazione di grande apprezzamento, solitamente associata al cibo, come: ‘è buono da leccarsi i baffi!’